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         Ave Maria !

         Buenos Aires, 27 gennaio 1936


 Caro don Penco,


 La grazia di Gesù Cristo Signor Nostro e la sua pace siano sempre con noi!

 Vengo a darle qualche relazione sull’incarico avuto, e che si riferiva alle signorine

Angelica Fuselli, Sofia Sierra Victorica, Amalia Pacheco e Maria Marta Saralegui,

già della Compagnia di S. Paolo.

 Come ella sa, le quattro, purtroppo abbandonarono definitivamente la Compagnia,

chi prima e chi poi.

 La Marta se n’era andata già, prima ancora che le scadessero i voti - 8 dicembre -

dicendo che era stata accettata dalle Carmelitane, e che doveva prepararsi ad entrare

per l’8. In casa non faceva quasi più nulla, era più fuori che entro.

Mi risulta che ad un prelato molto savio esse fece l’impressione di essere in uno stato

di esaltazione mentale, e così parve anche all’umile sottoscritto. Dalle Carmelitane, poi,

non andò - dicono che non l’abbiano più voluta. Da me non si fece più vedere,

né mai mi scrisse. L’avevo trattata molto bene: avevo insistito che non lasciasse

la prima vocazione, a cui diceva che veramente si era sentita chiamata, e,

poiché voleva sapere che cosa io ne pensassi, le risposi ritenere che al Carmelo

non avrebbe trovata la pace.

 La Amalia Pacheco uscì pure dalla Casa della Compagnia

prima che le scadessero i voti, per un ritiro che desiderò fare da sola, al fine, diceva,

di meglio decidere. Ad essa ho trasmesso le lettere che lei le ha scritto,

ed io pure le scrissi parole di conforto, animandola a perseverare: non mi ha mai risposto.

Già le avevo parlato più di una volta ed anche a lungo, con carità grande,

ma avevo trovato più una vespa che un’ape.

 La Fuselli poi e la Sofia, alcuni giorni prima dell’8 dicembre (scadenza dei voti),

chiesero un mese di tempo a riflettere se restare o andare. Il mese fu subito loro concesso,

con espressioni buone, da confortarle alla perseveranza.

 Agivo a suo nome, caro don Penco, e sapevo bene che ella desiderava usassi carità

senza limite. Nessuna delle quattro potrà lamentarsi dei modi e longanimità:

direttamente e indirettamente, tutti i ponti furono gettati perché quelle povere anime

ritrovassero la via del ritorno in sé ed alla Compagnia, ma, purtroppo, inutilmente!

 E quanto pregare si è fatto per esse! Possiamo avere la coscienza tranquilla,

caro don Penco, di non aver tralasciato nulla. Aggiungerò che all’ultimo di dicembre,

otto giorni quindi avanti che scadesse il mese loro concesso, dall’Uruguay,

dove mi trovato, ho scritto alla Angelica Fuselli - quella che ha formato

e capeggiato il gruppo dissidente - dicendole che, qualora essa o le sue compagne

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avessero desiderata altra proroga valendomi delle facoltà che lei mi aveva dato,

e sapendo di interpretare lo spirito del superiore come della Compagnia,

facevo conoscere in anticipo che volentieri sarebbe stata accordata ogni proroga,

con larghezza e carità, perché esse potessero continuare a pregare e a meglio riflettere

sul grave passo.

 Ma verso l’8 gennaio, Angelica e Sofia, - con esse era anche l’Amalia

vennero a dirmi che, avendo ormai deciso di abbandonare la Compagnia,

rinunciavano ed era inutile qualunque altro tempo.

 Parlò quasi sempre la Sofia, con parole che sapevano di studiaticcio

e alquanto accese, - poi interloquì, benché non sempre a proposito, la Fuselli, -

la Amalia non disse che tre parole.

 Come sempre, furono trattate con somma carità, pur non lasciando di ripetere

loro la convinzione mia che esse stessero cioè per commettere un grande sproposito,

dal momento che sempre avevano dichiarato di essere state da Dio chiamate

ad essere Paoline, e malgrado questo, finivano ora con uscire dalla Compagnia,

verso la quale, anche allora, dicevano di sentire viva gratitudine pel bene grande

che ne avevano ricevuto.

 E ripetei le parole di Gesù Cristo: «Chi pone mano all’aratro e si volta indietro,

non è atto pel regno dei Cieli»: chi abbandona la vocazione religiosa,

corre grave pericolo di perdersi.

 Ma non c’era più nulla da fare, caro don Penco; e me n’ero accorto sin dall’agosto.

Tanto che altra volta avevo detto alla Fuselli: «Vorrei sbagliarmi,

ma con dolore le devo dire che in altre non vedo lo spirito del Signore».

 E fu in novembre, che alla Fuselli e alla Sofia, unite,

ho dovuto rivolgere queste parole: non vorrei trovarmi al vostro posto in punto di morte.

 So quanto ci ho sofferto di aver dovuto parlare così.

 Ma, purtroppo, è raro, mio caro don Penco, che soffrano umilmente d’essere guidati

quegli spiriti che si reputano superiori a tutti, che trascorrono i giorni nel giudicare,

criticare e denigrare i loro superiori: spiriti che ritengono di capire e di capire,

e d’essere aquile non comprese.

 Essi vogliono seguire il proprio parere, il proprio io, e, ove non abbondino

le loro idee, col pieno rinnegamento di sé, si mettono a rischio di finire male,

specialmente se religiose - più poi quando disertano la vocazione per prurito di riforma.

 Ho tardato a fare questa relazione, perché sentivo che non era cosa da aver fretta,

e mi bisognava ponderarla ai piedi del tabernacolo.

 Essa non è giudizio unilaterale, poiché non ho sentito solamente le quattro dissidenti,

ma tutte e ciascuna delle altre Paoline e dei Paolini, con molta calma e usando la massima

imparzialità. Tutti hanno potuto parlarmi a loro agio, - e, avendomi Iddio assistito,

ho aiutato tutti e ciascuno, con grande e paterna carità in Gesù Cristo, ma specie le quattro,

sentendo vivo dolore per queste anime ed una profonda compassione.

 Come loro dissi fino all’ultimo, vorrei che il mio povero giudizio, nei loro riguardi,

fosse sbagliato; esso, però è dato con tutta serenità, ed è basato sulla realtà della situazione

molto penosa che in questa Casa della Compagnia S. Paolo si era venuta man mano creando,

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sopra tutto per lo spirito d’indole sempre inquieta e per l’indipendenza di giudizio

e l’amor proprio dell’Angelica Fuselli. Fu essa che inoculò alle tre altre

il suo malcontento e quel pessimismo che vedeva tutto nero: mi risulta anzi

che tentò pure di alienare dalla Compagnia qualche altra Paolina;

fu essa a spargere sfiducia, diffidenze, per non dire voci false e del tutto calunniose

a discredito della Compagnia, come ad es. sul caso Bicchierai. Se lo scrivente

non conoscesse bene la persona che ha consigliato il Bicchierai a farsi sacerdote

e le ripetute sue insistenze a ritornare in Compagnia, anch’egli ci sarebbe caduto.

Chi non sente che lei e le sue adepte, è facile rimanga impressionato. Così capitò

anche a me prima che io sentissi bene anche l’altra parte. La Fuselli ha modi insinuanti,

e molta abilità a tirare le persone al proprio punto di vista.

 Fomite di tutto è stato l’amor proprio, che altera la fantasia e turba il sereno

della ragione: l’amor proprio fu davvero, in questo caso, quel grande imbroglione,

che si veste, talora, di zelo e di umiltà: che suol rendersi padrone della immaginativa e,

con questa alterata, vede tutto per traverso, talora ragiona fin sottilmente,

e sa fare anche il moralista, il teologo, male a proposito, però, specie quando esso

giuoca nelle teste delle religiose.

 Un giorno la Fuselli mi disse di esaminare il suo spirito.

Forse si aspettava che mi mettessi là a farle un interrogatorio, -

sarebbe stato fare il giuoco del suo amor proprio. Non c’era peggior cosa

per quel birbone d’amor proprio che crescergli importanza.

 L’esame fu fatto, ma un po’ alla S. Filippo. Fu provata per mesi sulla umiltà e sulla

obbedienza, lei e le altre; - purtroppo, non con quel risultato che avrei tanto desiderato?

La Fusilli, specialmente, mi parve dominata dal nemico, più scaltro della nostra salute

e perfezione, e da buona dose di presunzione. Le lodi alla sua intelligenza,

in passato nella Compagnia, penso siano stato quel sottile e dolce veleno che nutrirono

il suo «io» e che, mi pare, abbia finito di uccidere in lei l’umiltà e quella abnegazione

che deve esser propria di una buona religiosa. Essa, secondo dati momenti, è trasportata

da una fantasia che le fa vedere tutto male nella Compagnia, che tutto è sbagliato,

specialmente quanto non previene da lei, e che non ha ottenuto il suo benestare.

 E le azioni di quelli che non condividono le sue vedute sono ai suoi occhi, difettose: -

di qui critiche, mormorazioni, e quel destare nelle sue tre intime suscettibilità, diffidenza

e continue ripugnanze.

 Più volte ha buttato il sasso, nascondendo la mano,

parandosi dietro qualcuna delle sue, che essa abilmente faceva muovere e parlare.

Le imperfezioni, le deficienze erano notate a punta di penna, con tanto di carta

e di calamaio, - erano ricercate vedute con occhi di bue e ripetute, - e tale fantasia

spesso la dominava con forza tanto maggiore, quanto essa credeva e mostrava,

di credere, di ragionare a freddo e di essere in grande calma. Ma poi, viceversa,

so che usciva in violenti scatti piena di acredine.

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 Non è veramente raro il caso, di vedere appunto persone religiose,

o che riflettono, cadere in assoluta balia della propria immaginazione.

 Non ricordo di aver mai trovato lo spirito delle quattro tranquillo e sereno, -

le trovai, invece, calcolatrici, quasi sempre esacerbate e molto irritate,

specialmente contro lei caro don Penco, come lei fosse la rovina della Compagnia:

e ciò unicamente per non averle lei secondate nei loro piani e progetti,

elaborati prima ancora che ella giungesse a Buenos Aires.

 La Fuselli, benché molto accorta, non poté sempre celare quel suo desiderio

che qui la Compagnia vada a fracassare: la nuova segretaria,

appena giunta dall’Italia, fu da essa salutata con questo bel complimento:

«Sei venuta a chiudere la Casa di Bs. Aires.»

 Di rinuncia alla propria volontà in tutte le cose per l’amor di Gesù Cristo,

non ne ho trovato: di desiderio verace d’essere contrariata, corretta, umiliata

e di patire volentieri per l’amore di Gesù Cristo, niente! - Di sottomissione

del proprio giudizio e di rinunzia, anche a quelle cose che sembrerebbero buone,

per immolarsi a Gesù, alla chiesa, alla obbedienza dei superiori, niente, caro don Penco,

purtroppo, di questa roba niente!

 E allora? Vogliono fare le riformatrici della Compagnia S. Paolo,

ma prima dovrebbero riformare bene se stesse, penetrarsi le ossa e le midolla

dell’effettiva annegazione di sé, - perché, qui sta il tutto, e non viè altra via, mi pare,

per arrivare a Gesù e a vivere Gesù.

 Vogliono fare le fondatrici:«Iddio mi chiama! Iddio mi chiama!» la Fuselli dice,

ma non so su che cosa fonderanno, poiché la dottrina di Gesù Cristo è tutta di annegazione,

di umiltà, di carità, di patimenti, e non si apprende che ai piedi del crocifisso.

Gesù Cristo, la s. chiesa e la Congregazione si amano e si servono in croce e crocifissi,

o non si amano e non si servono affatto.

 La Fuselli mi accennò a certe sante riformatrici: ho dovuto risponderle

che ben altro era il loro spirito dal suo.

 Potrò sbagliarmi, ma le quattro, prima ancora che lei, don Penco,

lasciasse Buenos Aires, già avevano l’animo staccato dalla Compagnia,

e almeno da qualche mese. Il loro piano era fatto: il superiore o farà come vogliamo noi,

o noi provocheremo qualche cosa.... e poi faremo da noi. - In quelle povere anime

non c’era già più che una tenue atmosfera religiosa, una parvenza, non più.

Bisognava che lei avesse fatto, e fatto subito, seduta stante come esse volevano,

o Lei non valeva più nulla, e per loro non fu più null’altro che un’imbarazzo,

che bisognava demolire e rimuovere.

 Nella loro testa, lei è un incapace, perdoni, caro don Penco lei non capisce nulla,

è un inetto, che non saprà mai attuare i principî basilarî della vita religiosa

della Compagnia, né l’apostolato cristiano sociale, secondo le necessità del Secolo XX.

 E il Visitatore Apostolico? - Per esse non esiste, non conta nulla! È un italiano,

non capisce!

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 E perché tutta questa rivolta? Perché lei ha visto dove stava appiattato il serpente,

ha tentato farlo saltar fuori, non lo ha accarezzato, sentì che bisognava agirgli contro,

e ci ha messo il piede sopra. lei ha voluto che rompesse una volta per sempre

coll’orgoglio vellutato, con l’indipendenza di giudizio, che impedisce e guasta

la vera umiltà e l’obbedienza, né approvo lo spirito di insubordinazione,

né i sofismi mascherati di sottili e fallaci raziocinî, ma volle che si vivesse la vita religiosa

in semplicità, umiltà, carità e obbedienza, secondo la massima del Vangelo,

secondo la disciplina voluta dalla s. chiesa. E il serpente si sentì colpito, si rivoltò, -

e, per quanto poté cercò di mordere lei e la Compagnia.

 L’individualismo che alcuna delle quattro osarono denunciare

ai danni della Compagnia, giganteggiò in esse, purtroppo, in modo fatale.

 E l’amore che, anche in questo ultimo tempo, ostentarono alla Compagnia, -

vorrei sbagliarmi - ma, per alcuna, mi parve una vera commedia, recitata fino all’ultimo,

se pur sarà finita.

 Così certe pose da anime in pena, da afflitte; così quel piagnucolare sui mali

irreparabili e addirittura disperati di tutta la Compagnia!

Io non dirò che vada tutto a perfezione, e che non ci siano piaghe e difetti,

ma qual’è l’ordine e la Congregazione religiosa, per quanto degna e rispettabile,

che non abbia nulla da correggere?

 Ma forse che è amore alla Compagnia, è onorare la madre il mostrarne le piaghe,

più supposte che reali? O rivelarne i difetti con lenti d’ingrandimento?

 Ho dovuto notare che, secondo le persone e le convenienze alcuna si esprime

più in un modo che in un altro, ma anche quando usano parole malata,

qua e là si celano spilli e veleno.

 E quando ad una di esse ho detto: «Se la vostra Compagnia è tanto malata,

una madre malata la si assiste, non si denigra né si abbandona: che se la madre

ha delle debolezze, delle piaghe, una buona figlia deve sempre avere un manto d’amore

da coprirle» - mi rispose, molto freddamente,: «La Compagnia è un cadavere,

non ne vale la pena». Ma foss’anche un cadavere, il corpo di una madre è sempre sacro,

e non si tratta così!

 È con profonda pena che ho trovato tanto spirito di freddezza e di ostilità.

Caro don Penco, io non temo nulla di più, in me e negli altri, che quella sciagura

che è l’indurimento del cuore che, specie, in noi religiosi, diventa un’atrofia,

una vera rovina spirituale, spesso sotto parvenza di sicurezza e di tranquillità di coscienza.

Tali io trovai quasi tutte le quattro fin da principio: - il loro cuore era chiuso. - Talora

pareva bene che in alcuna qualche cosa ancora vibrasse: era un’alternativa di speranze

e di disinganni. La Fuselli prendeva tali atteggiamenti da farmi fin pensare

ad uno sdoppiamento di persona: poi per volubilità e per influenze estranee,

da un giorno all’altro, tutto cadeva. Essa, anche nelle sfere del bene, non è costante,

difetto dannoso, all’anima sua e alle altrui. Ogni anno poi ha almeno una grana.

Riandate il suo passato in Compagnia e ve ne darete conto. Io conosco qualche cosa

anche di prima che venisse da voi.

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 Mi sono offerto di tenere ad esse un ritiro spirituale: mi sono offerto a farle trasferire,

anche tutte in Italia: - niente!- Vivevano di sé e per sé, nella più grande libertà

e indipendenza di giudizio e insubordinazione, con riunioni continue tra loro,

malgrado mio divieto! Nessuno vietava loro di osservare le Costituzioni professate,

anzi! - Solo mancava in esse la buona volontà e la semplicità.

Ogni passo di miglior osservanza mi pareva che dovesse esser fatto

entro la vita la guida della Compagnia e sotto la guida dei superiori,

in modo che non fosse spezzata l’effettiva unità della comunità, - esse invece,

contrariamente alle disposizioni date, non facevano che crocchi con un contegno che,

evidentemente portava a dissensi, toglieva la concordia, l’unione dei cuori e la pace.

Facevano come volevano, e davano poi la colpa alle altre che non potevano

osservare le Costituzioni.

 Ora tentano di giustificare la loro uscita, dicendo che tutto nella Compagnia

è un andazzo, un corpo senza spirito, una impostura, sia qui che in Italia:

e dicono che esse intendono di vivere molto più spiritualmente.

 Hanno fatto approcci presso qualche membro della Compagnia in Italia

per trarlo a sé, e tutto in gran segreto. Si lamentano poi che nella Compagnia

non ci sarebbe sincerità: proprio vero, caro don Penco, che chi non ha semplicità di cuore,

stima sempre doppio il cuore altrui.

 L’Arcivescovo Mons. Copello mi disse un giorno che qui le fondatrici

nascono come i funghi. - Più d’una volta ho pensato che di funghi ne nascono di buoni

e ne nascono di mortiferi. Dio non voglia che da queste quattro abbiano a sortire

funghi non di vita, ma di morte.

 Non sempre ho sentito in tutto con la Compagnia S. Paolo: oggi, però, devo,

in coscienza, essere con la Compagnia, non per partito preso, e neanche solo per sostenere

il principio di autorità, ma per la verità, e onde risparmiare forse, domani

a questa gerarchia ecclesiastica, possibili dolori.

 Se le quattro (con le quali, col divino aiuto, tanto ho abbondato in pazienza e carità

che non finirono di ringraziarmi) fossero state mie suore, avrei sentito di tener

un metodo alquanto diverso, e, certo, non dopo sei mesi. - Meglio però così:

la carità non è mai troppa.

 Ma mentre, Deo adiuvante, fu usata loro tanta bontà, quanta poca esse ne ebbero

con le consorelle e superiori! - Dopo l’esodo, a tutti della Compagnia,

ho imposto silenzio, e ci stanno. - Ho tuttavia creduto ancora di concedere alla Bellavita

di andare a far visita alla Fuselli, in casa sua, dietro desiderio di questa,

a dimostrare sempre il miglior animo. Ma ecco subito la Fuselli a mettere la zizzania

e dirle: «Perché non hanno fatto te nuova segretaria? - Quella.... è una francese....

tu almeno sei come un’argentina, essa non capisce niente, tu almeno...»

 Ora è da sapere tutto le virulenze lanciate, in certe adunanze, contro la Bellavita;

e, viceversa poi, che non dissero e non fecero per trarla dalla loro? Sino ad ingiuriarla,

a darle della mascherina etc. La Bellavita è buona, è anche capace, nel genere suo,

ma non m’è mai parsa una testa da governo, né ha bisogno di chi le monti la testa

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 Non era giunta la Madeleine Taintuier, nuova segretaria né l’altra,

venuta da poche settimane, che già erano state demolite dalla F. - e non dico in casa,

ma fuori...

 Don Ercole Gallone non è ancora giunto, ma già la Fuselli tentò di demolirlo,

e non dico in casa, ma fuori... - Sarà questa la riformatrice?

 Conosco don Gallone, e sono contento d’aver sentito che viene insieme

con Sua Eminenza, perché così il Cardinale Arcivescovo avrà modo di conoscerne

il valore, e più lo apprezzerà in avanti.

 E mi pare che basti, tanto più che mi manca tanto, poiché quando la presente

verrà spedita, già sarò in viaggio pel Cile.

 Mi sia permesso tuttavia, di aggiungere, mio don Penco, per essere in tutto sereno,

equanime, che anche la cara Compagnia S. Paolo ritengo debba - davanti al fatto doloroso -

pensare a meditare se non abbia la sua parte di responsabilità.

Si pensi che colei, che ha capeggiato il movimento secessionista,

non ricevette alcuna profonda formazione religiosa, non ha mai fatto un vero

e proprio Noviziato, contrariamente alle disposizioni dei sacri canoni, -

e non sono proprio le donne che possano essere facilmente dispensate dalla scuola

della vita e delle virtù religiose. Né bastava dire che aveva molta intelligenza, molta abilità,

perché fosse una vera Religiosa. Per di più essa fu elevata a posto di governo,

et in superbiam elata.... E non è da oggi che dà a pensare alla Compagnia!

 Anche le altre tre mi pare siano tornate dall’Italia poco poco formate,

se pur avevano vocazione: uscirono dal noviziato, si vede, non staccate da tutto,

né bastava un po’ di fervore.

 Onde la Fuselli, che mal si rassegnava a non essere più in posto di comando,

e che dopo, e fin dai primi mesi, aveva cominciata, con poca nobiltà d’animo,

una lotta sorda contro la segretaria che le era succeduta, poi contro l’Ing. Terruggia

e altre e altri, - trovò nelle tre già a lei legate, un elemento adatto su cui influire

e poi dominare, tanto che le portò sino alla diserzione.

 Caro don Penco e caro don Giovanni, fratelli dolcissimi in Gesù, perdonate,

perdonate a tanta mia libertà: credete alla mia viva pena di dover giungere

sino a scrivervi così: vogliatemi bene lo steso in Domino, e pregate sempre per me.

 Ritengo che Iddio abbia permesso questo vostro grande dolore,

perché desideri che venga curato sempre più il noviziato: con un buon noviziato

voi avrete assicurato alla Congregazione il più prospero e consolante avvenire. -

Coraggio e avanti in Domino, e pregate sempre per me.

 Che la SS. Vergine Immacolata vi conforti e conforti tutti: prenda essa

nelle sue mani e nel suo cuore di madre e porti avanti e in alto

la cara Compagnia S. Paolo!

 Che l’anima santa del Cardinal Ferrari e quei vostri benedetti

che già ci hanno preceduti da questa misera vita a vita beata, vi assistano,

e preghino per voi o miei amici e fratelli per voi e anche per me, povero peccatore,

bisognosissimo di preghiere.

            V037P183


 La abbraccio, caro don Penco; la abbraccio caro il mio don Giovanni Rossi,

e in voi abbraccio tutti i Paolini, in osculo Christi.


[Aggiunto a penna]


 Pregate per me sempre perdonatemi, se non ho fatto quanto dovevo,

perché vi fosse risparmiata tanta amarezza. E abbiatemi per il vostro

 Aff.mo nel Signore e nella Santa Madonna


         Sac.te Giovanni Luigi Orione

         dei Figli della Divina Provvidenza


 P. S.  Ho scritto a salti, e senza molta coordinazione: state alla sostanza.

Avrei ancora altro, dopo sei mesi di osservazione ma, come si fa? Credo che basti così,

e amen.

 Dio abbruci da questo scritto quanto ci fosse non secondo la sua carità.

Se le quattro povere figlie mostrassero un qualche desiderio di ritornare,

sarei pronto, con l’aiuto del Signore a farmi ponte cento volte -

e se cento volte abbandonassero ancora la vocazione, mi farei ponte mille volte

per agevolare il loro ritorno alla Compagnia S. Paolo

            V037P183b



[minuta]


 +         Bs. Aires, 25 Genn. 1936


 Caro don Penco,


 La grazia di Gesù Cr. Signor Nostro, e la Sua pace siano sempre con noi!

 L’incarico avuto, e che si riferiva alle sig.ne Angelica Fuselli, Sofia Sierra Victorica,

Amalia Pacheco e Maria Marta Saralegui, già della Compagnia di S. Paolo,

è terminato, e vengo a darlene breve relazione.

Non Butto giù senza

 Come ella già, sa, esse finirono, pur troppo, con l’ coll’abbandonare definitivamente

la Compagnia, chi prima e chi poi.

 La Marta già se n’era andata, prima ancora che le scadessero i voti - 8 dicembre, -

dicendo che era stata accettata dalle Carmelitane, e che doveva prepararsi.

In casa non faceva più nulla, era più fuori che in casa entro. Ad persona estranea e savio

Ecclesiastico estraneo e molto savio, e anche all’umile sottoscritto dava

ha data l’impressione di essere in uno stato di sovreccitazione mentale.

Dalle Carmelitane, poi non andò - dicono che non l’abbiano più voluta.

Da me non si fece più vedere, né scris mai scrisse. La avevo trattata molto bene:

mi avevo insistito che non lasciasse la prima vocazione, e, poiché essa voleva da me

una parola più chiara, mi limitai a dirle che pensavo che al Carmelo

non avrebbe trovata la pace.

 La Amalia Pacheco era pure uscita prima dalla Casa della Compagnia di qui

prima che le scadessero i voti, per fare un ritiro da sola, e meglio decidere.

Ho trasmesso ad essa le lettere che lei le ha scritto, ed io pure le ho detto scrissi

parole di conforto, animandola a perseverare, ma anch’essa non ha mai risposto.

Già le avevo parlato più di una volta ed anche a lungo, con carità grande,

ma avevo trovato più una vespa che un’ape.

 La Fuselli poi e la Sofia, alcuni giorni prima dell’8 dic.bre, (scadenza dei voti),

mi chiesero ancora un mese di tempo a riflettere se restare o andare.

Il mese fu subito concesso, con espressioni buone, e da animarle alla perseveranza.

La Fuselli, anche nelle sfere del bene, è incostante, volubili non è costante,

difetto dannoso all’anima sua ed alle altrui; considera ri Ogni anno poi essa

ha almeno una grana. Riandate al suo passato in Compagnia, e ve ne darete conto.

Io conosco anche qualche cosa di prima che essa entrasse da voi.

 Agivo a suo nome, caro don Penco, e sapevo bene che ella desiderava

che usassi una carità senza limite. Nessuna delle quattro potrà lamentarsi spero,

della dei modi e longanimità loro usata. Direttamente e indirettamente,

tutti i ponti furono gettati perché quelle povere anime trovassero la via del ritorno in se

e alla Compagnia, ma tutto inutilmente!

            V037P183c


 E quanto pregare per esse si è fatto! Possiamo avere la coscienza tranquilla,

caro don Penco, di non avere tralasciato nulla. Aggiungerò che agli all’ultimo di dicembre,

otto giorni quindi avanti che scadesse il mese loro concesso, dall’Uruguay,

dove mi trovavo, ho scritto alla Angelica Fuselli, - quella che ha sempre capeggiato

il gruppo dissidente, - dicendole che, qualora essa o le sue compagne

avessero desiderata altra proroga valendomi delle ampiae facoltà che Lei mi aveva dato,

sapendo di interpretare lo spirito di lei e della Compagnia, facendo conoscere, in anticipo, che volentieri sarebbe stata accordata ogni proroga con larghezza e carità,

perché continuassero a pregare e a riflettere sul grave passo che stavano per dare.

 Ma verso l’8 genn., la Angelica, e Sofia -e  con esse era l’Amalia, -

vennero a dirmi che, avendo ormai deciso di abbandonare la Compagnia,

rinunzciavano alla offerta di avere altro tempo.

 Parlò quasi sempre la Sofia, con parole studiate che sapevano di studiaticcio

di e alquanto accese, benché contenute, - poi interloquì, e non sempre a proposito,

pure la Fuselli, - la Amalia non disse che brevi parole.

Furono ancora Come sempre, furono trattate con somma carità,

pur non lasciando di esprimer ripetere loro la mia convinzione che esse stessero

per commettere un grave sproposito coll’ dal momento che sempre mi avevano dichiarato

d’essere state da Dio chiamate ad esser Paoline, e malgrado questo, ora finivano

di abbando con l’uscire dalla Compagnia, verso la quale anche allora

dicevano di sentire viva gratitudine per pel grande bene che ne avevano ricevuto.

E ripetei le parole di Gesù Cristo: «Chi pone mano all’aratro e si volta indietro,

non è atto pel regno de’ cieli[»]: chi lascia abbandona la vocazione religiosa

corre grave pericolo di perdersi.

 Ma non c’era più nulla da fare, caro don Penco; ed io me ne ero p accorto

sin dall’agosto. Tanto che, altra volta, avevo detto alla Fuselli: vorrei sbagliarmi,

ma con dolore le devo dire che non vedo in voi altre lo spirito del Signore.

 E in Dic novembre, alla Fuselli e alla Sofia unite, ho detto:

non vorrei trovarmi al vostro posto in punto di morte.

 Io solo so quanto ci ho sofferto di per aver dovuto, in coscienza, parlare così forte.

 Ma, pur troppo, è raro, mio caro don Penco, che soffrano umilmente

d’essere guidati quegli spiriti che si reputano superiori a tutti, e che trascorrono a giudicare

criticare e denigrare i loro superiori, e che ritengono d’essere spiriti e aquile non comprese.

 Essi vogliono seguire il proprio parere, il proprio io, e, ove non abbandonino

le loro idee, con pieno rinnegamento di sé, si mettono a rischio di finire male,

specialmente se donne se religiose, - e più quando disertano la vocazione

per prurito di riforma e o per egoismo individuale.

Il Questo mio giudizio non ha ho ritardato a darlo perché sentivo di non dover

aver fretta e di ponderarlo ai piedi del Tabernacolo. Esso non è giudizio unilaterale,

poiché non ho sentito solamente le quattro dissidenti, ma tutte e ciascuna

delle altre Paoline e dei Paolini, e con molta calma e usando la massima imparzialità.

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Tutti hanno potuto parlarmi a loro agio, - e, avendomi Iddio benedetto, molto aiutato,

con tutti e con ciascuno ho avuto grande e paterna carità in Gesù Cristo,

ma specie con le quattro. Ho sempre sentito per queste anime e ne sento

una profonda compassione.

 Come dissi loro sino all’ultimo, vorrei che il mio povero giudizio, nei loro riguardi,

fosse sbagliato: ma esso è dato con tutta serenità, ed è basato sulla realtà della situazione

molto penosa che in questa Casa della Compagnia San Paolo si era venuta

mano mano creando, sopra tutto per lo spirito d’indole sempre inquieta

e l’amor proprio dell’A. Fuselli. Fu essa che propagò alle tre altre il suo malcontento

e il quel pessimismo che vedeva tutto nero: anzi mi risulterebbe che essa tentò pure

di alienare dalla Compagnia anche qualche Paolina italiana: essa sparse la sfiducia, diffidenze, per non dire voci false e del tutto calunniose, a discredito della Compagnia,

come, ad es., circa il caso il Bicchierai.

 Fomite di tutto fu è stato l’amor proprio, che altera la fantasia

e turba il sereno della ragione: l’amor proprio è stato fu davvero, in questo caso,

più quel grande imbroglione, che si veste, talora di zelo e di umiltà,

che suol rendersi padrone della immaginativa e, con questa alterata vede tutto per traverso,

talora ragiona fin sottilmente e sa fare anche il moralista, il teologo, male a proposito,

specie quando giuoca ed e si esalta nella teste delle religiose.

 La Fuselli mi disse un giorno di esaminare il suo spirito. Forse si s’aspettava che

mi mettessi là a farle un interrogatorio. Sarebbe stato far il giuoco del suo amor proprio,

e darle troppo credito: non c’era peggior cosa per la sua anima che il suo spirito

che crescergli crescerle importanza. L’esame fu fatto, ma un po’ alla San Filippo,

in modo, un po’ cioè alquanto diverso da quello che essa forse si aspettava dal comune -

Fu provata sulla umiltà e sulla obbedienza, lei e le altre, e ma pur troppo,

non con quel risultato che pure avrei tanto desiderato.

Essa La Fusilli, specialmente, mi parve dominata dal nemico più scaltro della nostra salute

e perfezione, voglio dire dall’amor proprio, e da una sconfinata buona dose di presunzione.

Le lodi alla sua veramente bella intelligenza, a alle doti singolari sue, a sue benemerenze

e al suo pel il lavoro da lei fatto nel passato qui, a prò della Compagnia,

penso siano state quel sottile e dolce veleno che nutrirono il suo amor proprio io,

e che, mi pare, abbiano abbia finito di uccidere in lei le la umiltà e quella abnegazione

che debb’esser propria della vita religiosa. d’una buona religiosa. Essa,

è secondo dati momenti, è trasportata da una fantasia che, soventi volte,

le fa vedere che tutto nella Compagnia va male, che tutto è sbagliato,

ciò che non previene da lei o che non gode ha ottenuto il suo benestare.

 Bene spesso le azioni di quelle che non condividevono condividono le sue vedute

sono, ai suoi occhi, difettose: - di qui le critiche, le mormorazioni, e quel destare

nelle sue tre intime mille suscettibilità, diffidenze e continue ripugnanze.

E il brutto fu è stato buttava il sasso e nascondeva la mano, parandosi, di frequente,

dietro qualcuna delle sue, che abilmente essa faceva muovere e parlare abilmente.

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 Le deficenze, le imperfezioni, le deficienze erano notate a punta di penna,

con tan carta e di calamaio, erano ricercate, ripetute e mostrate vedute con occhi di bue, -

e tale fantasia spesso la dominava con forza tanto maggiore, quanto più essa credeva

o mostrava di credere di ragionare a freddo e di essere in grande calma. Ma poi, viceversa,

usciva ta con talune persone, in violenti scatti rabbiosi pieni di acredine.

 Né è veramente raro il caso di vedere appunto persone religiose, e o che affettano

pietà e che riflettono, cadere in assoluta balia della propria immaginazione.

Non ricordo d’aver trovato lo spirito delle quattro veramente sereno, le trovai, invece,

quasi sempre esacerbate e sempre molto contrarie a irritate, contro di lei

specialmente caro don Penco, come se quasi fosse lei quasi la causa precipua

della rovina di tutto della Compagnia, e ciò per non averle secondate nei loro piani

e progetti, elaborati prima avanti ancora che Lei ella giungesse a Bs. Aires.

 La Fuselli, è molto accorta, ma non poté non sempre

nascondere l’idea - non oso dire la voluttà - celare il desiderio che qui la Compagnia

abbia a aves abbia a fracassare: alla la nuova segretaria, appena giunta,

da ultimamente, dall’Italia, fu da essa salutata con questo complimento:

Sei venuta a chiudere la Casa di Buenos Aires.

 Di rinunzia alla propria volontà in tutte le cose per l’amor di Gesù Cristo,

non ne ho trovato: di verace desiderio d’essere contrariata, corretta, umiliata

e di patire volentieri per l’amore di Gesù Cristo, niente! - Di sottomissione

del proprio giudizio e di rinunzia, anche a quelle cose che sembrerebbero buone,

per immolarsi a Gesù, alla chiesa, alla ai S volontà obbedienza dei Superiori, niente,

caro don Penco, pur troppo, di questa roba niente!

 E allora? - Vogliono fare le riformatrici della Compagnia S. Paolo,

ma mi pare che, prima, dovessero riformare bene se stesse, penetrarsi le ossa e le midolla

dell’effettiva annegazione di sé, - poiché qui sta il tutto, e non vi e altra via, mi pare,

per arrivare a Gesù e a vivere Gesù.

 Vogliono fare le fondatrici, ma non so su che cosa fonderanno, poiché la dottrina

di Gesù Cristo è tutta di annegazione, di umiltà, di carità, di patimenti,

e non si apprende che ai piedi del crocifisso.

 Potrò sbagliarmi, ma le consapute quattro, prima ancora che lei, don Penco,

lasciasse Bs. Aires, già avevano l’animo staccato dalla Compagnia, e almeno

da qualche mese. Il loro piano era fatto: il superiore o farà come vogliamo noi,

o noi ce provocheremo qualche cosa.... e poi faremo noi. - In quelle povere anime

non c’era già più che una tenue atmosfera religiosa, una parvenza, non più.

 Bisognava che lei avesse fatto, e fatto subito, seduta stante come esse volevano,

o Lei non valeva più nulla.

 Nella loro testa, Lei è un incapace, perdoni, caro don Penco, lei non capisce nulla,

lei non saprà mai attuare i principî basilarî della vita religiosa della Compagnia,

né l’Apostolato cristiano sociale secondo le necessità del Secolo XX.

 E il Visitatore stesso Apostolico? - Per esse non esiste e non conta nulla!

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 E perché tutta questa rivolta e scissione? - Perché lei ha visto dove stava

annidiato appiattato il serpente, e ha tentato farlo saltar fuori, e agire contro

e non lo ha accarezzato, ma sentì che bisognava agirgli contro.

 Lei ha voluto che si rompesse una buona volta per sempre con l’orgoglio vellutato,

con l’amor proprio mat e e lo spirito d’insubordinazione, e di con isofismi mascherati

da sottili e fallaci raziocinî, ma che si vivesse la vita religiosa in semplicità, umiltà,

carità e obbedienza, secondo le massima del Vangelo, secondo la disciplina voluta

dalla chiesa. E il serpente si sentì ferito colpito e si rivoltò e, per quanto poté cercò

di mordere lei e la Compagnia. L’individualismo che alcuna delle quattro denunciarono, giganteggiò in esse, pur troppo, in modo fatale. L’amore che, esse in questo ultimo tempo,

ostentarono alla Compagnia - vorrei sbagliarmi - ma per alcuna di esse

fu una vera commedia, recitata fino all’ultimo, se pur sarà finita.

 Così il prender posa di certe pose da anime in pena e di da afflitte: così

quel piagnucolare sui mali irreparabili della e addirittura disperati di tutta la Compagnia!

Io non dirò che tutto vada a perfezione e che non ci siano pieghe e difetti,

ma qual’è l’Ordine e Congregazione religiosa, per quanto degna e rispettabile,

che non abbia nulla da correggere?

Era forse Forse è amore alla Compagnia, è onorare la madre il mostrarne le piaghe,

più supposte che reali? O rivelarne i difetti con lente d’ingrandimento?

 Ho ril dovuto rilevare che, secondo le persone e le convenienze,

alcuna si esprimeva più in un modo che in altro, ma anche quando usavano parole melate,

esse celavano spilli e veleno.

 E quando ad una di esse ho detto: se la vostra Compagnia è malata,

una madre malata si assiste, non si denigra né si abbandona: se poi la Madre

ha delle debolezze, delle piaghe, una buona figlia deve sempre coprire la debole

coprirla con un manto d’amore. Mi si rispose, molto freddamente:

la Compagnia è un cadavere, non ne vale la pena. Ma foss’anche un cadavere,

una madre è sempre sacro, e non si tratta così!

 Lo dico con profondo dolore: ho trovato lo spirito di alcune di loro

in uno stato orrendo di freddezza e di ostilità alla Compagnia Io, caro don Penco,

non temo nulla di più, in me e negli altri, che quella vera sciagura che è

l’indurimento del cuore, che, specie in noi religiosi, diventa una vera atrofizzazione,

atrofia, una fredda ruina spirituale, spesse volta sotto parvenza di sicurezza

e di tranquillità di coscienza. Tali io trovai, pur troppe, quasi tutte le quattro

fin da principio: - il cu loro cuore non rispondeva più

Pareva in In qualche momento che pareva bene che in alcuna qualche cosa vibrasse

ancora, ma o la volubilità (e la Fuselli è molto i o qualche cosa d’altra influenza non buona,

presto presto tutto cadeva.

 Mi sono offerto a tenere per esse un ritiro spirituale: mi sono offerto a farle trasferire,

anche tutte, in Italia; niente! caro don Penco: esse non rispondevano più

che per far gruppo a se o per esagerare per trascendere in esagerazioni e demolire.

 Esse vivevano in una grande indipendenza e insubordinazione di giudizio.

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 Nessuno vietava loro di osservare le Costituzioni professate, -

solo mancava in esse la buona volontà e la semplicità. Ogni passo di miglior osservanza

mi pare pareva che doveva dovesse esser fatta fatto entro la vita della Compagnia

e sotto la guida dei superiori, in modo che non fosse spezzata l’effettiva unità

della comunità: - invece esse, non contrariamente alle disposizioni date, non facevano

che crocchi e adunanze a se, che che evidentemente portavano a dissensi in casa,

e toglievano la concordia, e la pace l’unione dei cuori e la pace.

 L’Arcivescovo Copello mi disse un giorno che qui le fondatrici

nascono come i funghi.

 Io ho pensato più volte che di funghi ce ne sono di buoni e ce ne sono di mortiferi.

Dio non voglia che da queste quattro, consigliate anche, pare, da qualche persona

che non sempre avrebbe sentito umilmente con la chiesa, abbiano a sortire frutti

non di vita, ma di morte. Confesso che se queste qu le quattro, (con le quali

ho tanto abbondato in carità, che esse stesse, penso, devono esserne state meravigliate, e,

infatti, me ne ringraziarono più vo d’una volta) se fossero state, dico, mie Suore,

avrei sentito in coscienza di dover tenere ben altro metodo; e non dopo sei mesi.

 Non sempre io ho sentito in tutto con la Compagnia San Paolo, ma oggi devo,

per coscienza, sostenere la Compagnia, non per partito preso, e neanche solo

per sostenere il principio d’autorità, ma per la verità, e per risparmiare, domani,

a questa Gerarchia Ecclesiastica possibili dolori.

 Ciò detto mi sia permesso aggiungere, per essere in tutto

altamente serenamente equanime: pensi e mediti bene la Compagnia S. Paolo

la grave parte di sua responsabilità che essa mi pare che abbia

nell’esodo di queste delle quattro.

E c Ciò dico non per le esagerazioni perché io abbia riconosciuto vero

ciò che le quattro esse hanno deposto, no! C’è qualche Qualche cosa di vero c’è

ma c’è molto di inesatto e c’è addirittura dell’esagerato, del passionale -

del e fin del calunnioso.

 Però la resp si pensi che colei, che la quale ha capeggiato il movimento secessionista,

non ebbe alcuna soda formazione religiosa, non ha mai fatto alcun tempo di vero

e proprio noviziato, contrariamente ai sacri canoni, ma fu subito elevata

a posti di governo, - onde in superbiam elata etc......

 E così le altre tre ven mi risulta che ritornarono qui non ben formate religiosamente

E quando la Fuselli dovette esser tolta da segretaria, mal si rassegnò

a diventare semplice Paolina, e cominciò la lotta, e ogni tanto ne aveva una,

un po’ pel suo suo carattere un po’ perché le mancava la vera formazione

E contro quella poveretta, che era stata mandata qui a sostituirla, non passò molto

che furono rivolti che le si aperse una lotta o senza alcuna nobiltà d’animo

né alcuna generosità, e dico poco.

 Caro don Penco, mi perdoni, e creda alla mia pena grande di dover scrivere così.

 Se ella non riuscirà ad altro che a dare alla ad assicurare alla Compagnia

un buon noviziato, Lei avrà assic assicurato l’avvenire della alla Compagnia

il più consolante avvenire.

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