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[esiste una minuta di quattro fogli non digitata]
+ Anime e Anime !
Mar de Espanha, il I Gennajo 1922
Al mio caro e venerato Vescovo e padre in Gesù Cristo,
È il I giorno del [1]922, e da questo «primo rifugio e primo ostello»
dei figli della Divina Provvidenza in Brasile, mi è assai dolce rivolgere il primo saluto,
pieno di riverente affetto in Gesù Cristo, al mio venerato e amato, oh sì!
tanto amato Vescovo.
È la prima lettera che scrivo nel nuovo anno, e in quest’alba del I Gennajo.
Molto avrei voluto scriverle in questi passati giorni, ma non ho potuto lavorare,
non potevo più lavorare Sia benedetto il Signore di tutto! sì, sia sempre benedetto!
Ora sto bene, proprio bene.
Male, veramente non sono mai stato, solo una o due notti un po’ così:
mi rincresceva morire lontano da Tortona, lontano dai miei primi orfani
e dai miei primi sacerdoti e da v. Eccellenza, ma poi mi sono ripreso,
e avevo fatto il sacrifizio fin contento.
Ma sono un bifolco delle ossa dure; ora mi vanno ancora pennellando la schiena,
e mi sto preparando ad aprire la Casa in S. Paolo, e poi ajutandomi nostro Signore,
ritornerei in Argentina; - press’a poco quando v. Eccellenza, già riceverà questa mia,
io sarò in mare: in quattro o, al più cinque giorni di mare e sono là.
Sono passi che i miei in Italia non li capiscono, e altri di lì insieme con essi
non li capiscono, io pure non capisco che poco poco di ciò che sto facendo,
e che mi va succedendo qui
Cerco di pregare, e prego più col desiderio e coll’affetto del cuore,
che come si prega usualmente. Poi ogni tanto alzo gli occhi a nostro Signore
o a qualche immagine della SS. Vergine, e cerco fare atti di diffidenza di me
e di confidenza nel Signore.
Vedo e sento bene tutta la mia debolezza e della piccola Congregazione,
ma se ci buttiamo in Dio e cerchiamo lui e le anime, sento che egli non ci lascerà in terra,
ma ci raccoglierà sul suo cuore, quando vedrà che noi, per amarlo e servirlo,
saremo ridotti che non ne possiamo più!
So bene che lo spirito di superbia è molto fino, specialmente in me, e che il nemico
si serve degli stessi atti di umiltà per tentarci, e temo di fare atti di orgoglio sottilissimo
del cuore, benché coperto al di fuori dal manto della umiltà, e cerco di pregare;
e almeno col cuore e con lo spirito vorrei stare inchiodato ai piedi di nostro Signore,
mentre
lo voglio supplicare e
lo vado supplicando, se è lui ché vuole,
allora di condurmi lui, perché io chissà dove andrei a finire, e allora di darmi lui,
che è il Signore di tutto, un coraggio e una fiducia tanto grande quanto è grande lui stesso,
e lui, proprio Gesù stesso crocifisso, che n’è il fondamento.
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Povero me! Dio allontani la mia grande superbia, e se la metta lui
sotto dei suoi piedi trafitti dalle mie mani peccatrici,
(qui ho dovuto interrompere, e riprendo che è il 3 di gennajo)
ma a vostra Eccellenza rev.ma, come a Vescovo e a padre dell’anima mia,
che sa ben compatire anche la superbia dé suoi figli in X.sto, mi pare di poter dire
che alcune volte, dopo avere pregato e d’essermi più gettato nelle braccia
della Divina Provvidenza, sento come una mano che pare mi conduca.
E se ciò che ora sto per dire non è somma vanità e stoltezza di me peccatore grande
e agli occhi di n. Signore e agli occhi pure miei, mi pare che sia la SS. Vergine
che mi conduce, con un amore, con un amore, con un amore! che io miserabile
non so come esprimere. E allora ho una grande pace in me che mi conforta,
e un grande bisogno di adorare nostro Signore e di fare atti di amore a lui
e alla sua santa Chiesa, e mi venderei mille volte e mille volte ne morrei per n. Signore
e per la chiesa e anche per un pulviscolo della croce di Gesù Cristo
e per una fimbria di quello che è l’abito direi umano, della s. chiesa,
non
dico poi per il S. Padre, per i Cardinalei
o per i Vescovoi, per i
sacerdoti
e sacri ministri, anche questi fossero meno degni - pure per essi, e più per essi,
oserei dire, darei mille e mille volte la vita, - tanto più che io sono uno di essi,
molto indegno di questa altissima dignità onde alla materna bontà della chiesa
è piaciuto di rivestirmi, e più di ogni altro bisognoso di preghiere e di compatimento.
E in questi atti di amore mi pare di vivere e di dover comminare a compiere opere non mie,
e in una luce che mi riscalda l’anima, e condotto a mano da colei che non so nominare
senza piangere di tenerezza, per tanta misericordia di madre verso l’anima mia.
Io non dirò di più, né posso dire, solo che mi è parso più d’una volta che essa
abbia voluto letificare e consolare me indegno suo figliolo in questo cammino.
Sento grandissima vergogna a dirle questo, e vostra Eccellenza compatisca
anche queste sciocchezze poiché ella sa bene che non ho mai avuto la testa proprio a posto,
e dopo aver passata la linea dell’equatore, si sa che i matti diventano più matti,
tanto più con i calori ardentissimi del Brasile, e in questa estiva stagione,
poiché qui siamo ora in piena estate e ai primi di febbrajo si vendemmierà,
benché in questa zona di uva ce ne sia poca assai perché le viti e le uve
facilmente vengono distrutte dai grandi formicai.
Dunque dirò che tante cose anch’io poco le capisco, ma penso che lavoro nelle
baracche della Divina Provvidenza e per conto di essa, e cerco d’andare avanti in Domino,
evitando l’offesa di Dio, e cercando il bene e di vivere, per quanto conosco, secondo
la legge e lo spirito del Signore, e così tiro avanti senza cercare di più, ciò che forse
capirei meno o finirei di storpiare di più, se di più da uomo volessi filosofarci sopra.
E questo ho tentato di scrivere anche ai miei che facciano,
pregando n. Signore che a me, a me, prima che ad essi, dia umile fede di seguirlo;
come gli piace da povero baciocco.
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Meglio stolto seguendo umilmente n. Signore, melior est dies una in atrîs
tuis Domine super nullia!
E benché senta tutto il peso del mio fango, e la debolezza di tutte le mie debolezze,
e l’ignoranza di tutte le mie ignoranze, no che non mi voglio avvilire,
ma mi getto quasi straccio e vero straccio sotto dei piedi della santa chiesa di Gesù Cristo,
- e mi getto e voglio, con la divina grazia, gettarmi sempre e ad ogni momento
e poi restare sempre tra le braccia - ah non ai piedi solo, ché troppo poco sarebbe
più per il mio cuore, oso dire, che per il bisogno mio - sì tra le braccia voglio gettarmi
e mi getto di nostro signore Gesù Cristo crocifisso, e voglio perdermi nel suo cuore!
E voglio perdermi fra le braccia materne della Madonna SS! e voglio perdermi
nelle braccia della santa chiesa di Gesù Cristo, e del Papa e dei Vescovi!
E così vivere e così morire! Così vivere, ché solo si vive e posso vivere cosi; e così morire,
perché morire così è vivere, e vivere di lui che è vita!
Ma vedo che sto finendo anche questo foglio, e la cicala deve finire di nojosare
con la sua tiritera, e vostra Eccellenza perdoni sta lunga cicalata.
Passerò a qualche notizia, e comincerò a dirle cosa che La farà ridere alquanto.
Oggi dovevo trovarmi a predicare a 500 chilometri da qui,
nell’interno del Minas Geraes, ad un Istituto di suore della Michel,
forse il più importante o, almeno, il più numeroso.
Non l’ho potuto, e pazienza! Ma non vorrei pensare che fosse per sentirmi poco bene,
no, ora sto benissimo, e non dico bugia: quando non c’è febbre e c’è l’appetito
mi pare che si possa dire che si sta bene.
Ho scritto dunque l’altro jeri, e l’ho poi finita jeri mattina, -
ho scritto a quelle suore, novizie, postulanti, normaliste etc., una lettera, un letterone
di più che trenta facciate di carta protocollo.
Avevo bisogno di predicare a me, e così ho fatto, invece,
un predicone proprio da padre abate! E ogni tanto che finivo i fogli e li buttavo là,
davo un’occhiata a quegli orribili scarabocchi e una fregatina di mani.
E pensavo..... Che cosa, da vero biricchino, pensassi, glielo dirò dopo.
Era poi notte e tutto silenzio, ed era un piacere! Mi avevano fatto una bella fregagione
alla schiena, come si farebbe ad un cavallo matto -
Io, in verità, non è d’adesso che son matto, son sempre stato un po’ matto,
anche da piccolo, e tutti al mio paese lo sanno, - io poi sono di quel famoso paese
là di Pontecurone dove, anticamente almeno, tanto per non offendere la delicatezza
dei presenti, la gente aveva un grano di pazzia non solo in testa, ma fin anco nel collo,
onde fin dal collo ci uscivan certe protuberanze, certi bernoccoli,
che avrebbero dato da studiare a più di un frenologo tedesco
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Ma, torniamo al serio. Avevo dunque la schiena che mi grillava, che mi cantava
che era un piacere. Quante pelli io abbia già cambiate su questa benedetta schienaccia,
non so, - so che don Camillo, quel pretone ruvido, grande e grosso
che vostra Eccellenza vide partire con me e che ha, o deve avere i nervi doppi,
perché delle sue mani si spaventano fino i mori che sono qui,
discendenti ancora dagli schiavi, e qui portati a forza dall’Africa. don Camillone dunque
con quei suoi manoni da San Pietro, grossi e rustici più che le mani di un facchino,
mi fa lui le fregagioni ogni sera. È un diritto acquisito, e sarebbe un detronizzarlo,
un offenderlo, se un altro osasse solo accennare a voler fare lui.
Durante la guerra questo mio dolce infermiere è stato ai servizî di un veterinario,
e ha imparato a curare con mano forte.
Io dunque gettavo giù i fogli della mia discorso alle monache della Michel,
mentre la schiena pareva che mi andasse a fuoco poiché me ne aveva data una bottiglietta,
e su tutte due le spalle e fin sul petto, e poi ancora sulla schiena per una buona mezz’ora
con fregagioni e certi massaggi che mi pareva volesse cacciarmi quelle magnaccie,
ruvide e sporche ancora di calcina, fin dentro le viscere.
Ma ho capito che egli, povero don Camillone, lo faceva fin per divozione,
e quando mi usciva qualche sospiro, mi confortava dicendomi: non abbia timore,
ché un diavolo caccia l’altro, poi io so fare l’infermiere, l’ho imparato a soldato!
E giù massaggi calcati, con quelle mani da cementista dure e piene di calli,
che mi pareva che le ossa della schiena mi dovessero saltare fuori dallo stomaco.
E sotto quel fuoco veniva giù la predica alle monache, e più gettavo là quei fogli
pieni di ghirigori e di freghi a scatti, secondo il bruciare della schiena
e i contorcimenti che facevo, poiché mi pareva d’esser preso tra due fuochi,
tra petto e schiena, - e più gettavo là quei fogli, molto somiglianti a quei tali là della Sibilla,
tanto io stesso poco ci capivo più - sentivo in me una gioja come da ragazzo, -
dico pure da birichino, - una felicità dolcissima che mi faceva come assaporare quei fogli,
che mi andavano diventando tanto più cari, quanto più si venivano moltiplicando.
Vostra Eccellenza mi dirà: e perché?
Perché? Eh, qui è il bello, Eccellenza.
E non mi tiri le orecchie - già c’è il mare, - ma io in me sarei pur felice
di sentirmele tirare. Dunque, le dirò, caro mio Vescovo, che più i fogli si ammucchiavano
e più me la ridevo contento e mi andavo fregando ogni tanto le mani, contento...contento...
E pensavo lontano! Mi dirà: pensavi alle monache che avrebbero poi letto
quel lungo e mastodontico predicone? Ma no, Eccellenza, no! Ma che monache d’Egitto!
Io
pensavo lontano....più lontano.... e E
mi davo ogni tanto una bella fregatina di mani,
una crollata alle spalle e alla schiena, che mi grillava come fa l’olio che bolle,
e poi una risatina saporita, vedendo quell’ammonticchiarsi di fogli - e quel lungo letterone!
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E me la ridevo in Domino, e pensavo a persona lontana... e furono alcune ore di lieta
e di perfetta letizia, mentre la schiena bolliva che pareva vi divampasse su il fuoco,
tanto che poi, quella notte, quando tentai di coricarmi, non sapevo più in che positura stare.
Ma dirò ora perché mi sentivo tanta gioja da ragazzo birichino.
Eccole dunque: mi pareva, con tutti quei fogli e con quel lungo letterone,
di somigliare un poco al mio caro Vescovo lontano, al mio caro padre lontano:
so che anche vostra Eccellenza scrive di notte e butta là un foglio su l’altro
e vengono poi quelle pastorali che sono dei trattati! pensavo di somigliare, almeno
nello scrivere lungo, al mio Vescovo lontano, che anche lui scrive i lunghi letteroni,
e me lo vedevo come davanti, lo vedevo col cuore: gli occhi vedevano i fogli,
ma il cuore vedeva il suo Vescovo, - e allora tutto il bruciore della schiena e della pelle
malettamente
provvidenzialmente lacerata, non lo sentivo più,
o mi diventava anch’essa una gioja.
Caro mio Vescovo, tanto, amato da questo poveraccio che vi vede anche in sogno,
e Dio solo lo sa che cosa vorrei poter fare per voi!
Pensavo
che don Perduca le avrà detto una parola che ho scritto
gettato là
nel margine di una lettera a lui, scrittagli da Rio de Janeiro una quindicina di giorni fa.
Le due venerate lettere di vostra Eccellenza, quella inviatami dai chierici,
e l’altra appena prima del suo viaggio a Roma, la ebbi quasi contemporaneamente,
al mio ritorno in Brasile dall’Argentina.
Avevo scritto forse un sette od otto giorni prima a v. Eccellenza da Buenos Aires,
troppo breve, è vero, e poi quà giunto avrei voluto scrivere ancora, scriverle subito,
ma non potei. - Dovetti girare, e poi non stavo sul mio. Ero anco molto addolorato
perché nostro Signore, - basta, adesso stavo già per dirne una poco da galantuomo,
e non la voglio più dire, perché nostro Signore sa quello che fa, e permette
quello che a me sembra male sempre con infinita sapienza e bontà.
Fatto sta che invece di vivere di fede e riposare abbandonatamente
nelle bracce amorose della Divina Provvidenza con fede semplice e da figlio, io,
tornato dall’Argentina, dove come penso averle scritto,
la SS. Vergine mi aveva trattato troppo coi dolci, trovai qui qualche cosa
che
non mi pareva andava, e
della impostura in certe persone,
pure consacrate a N. Signore e alla chiesa e fin della malvagità bassa bassa,
che mi faceva stomaco, - e più la notizia della morte d’un mio caro sacerdote,
quello che v. eccellenza mi ordinò a Natale dell’anno scorso:
furono due allora gli ordinati, e già sono morti tutti e due, poveri figli miei, cari figli miei,
che io non finirò di piangervi mai! e trovai altri dolori. - E così me l’ero presa un po’
con nostro Signore; ma adesso abbiamo fatto pace, e gli ho promesso
che non farò più capricci.
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Dunque la parola che ho messo là nella lettera di don Perduca le ha detto tutto:
ogni altra cosa che vostra Eccellenza si degnò comunicarmi, colle sue graditissime lettere,
per quanto fossero interessanti e mi recassero, - a seconda, piacere o pena,
però tutto tutto passò in seconda linea, davanti a quel suo accenno di rinuncia!
Mi si piantò una spina nell’anima, ci ho pianto tanto su quelle parole!
Ma cosa le viene in mente a vostra Eccellenza! Ma non sa che quelle
sono idee melanconiche, dove dentro non ci sta il Signore?
Non sa che quelle sono tentazioni del diavolo belle e buone, o, meglio,
brutte e dannose assai? non sa che quello è il demonio?
Appena ho letto, sono andato col cuore alla Madonna e poi ho pregato,
pensando che appunto in quei giorni ella potesse ancora trovarsi in Roma.
Ora non dubito che vostra Eccellenza non sia tornata pienamente soddisfatta
e riconfortata dalla parola augusta di benevolenza e di approvazione del S. Padre.
oel
resto, vostra Eccellenza sa quello che, con l’ajuto
di Dio, ha già potuto compiere
per il bene di codesta sua chiesa e sua diocesi: sa in quale stato ha trovato Tortona
e la diocesi di Tortona, - sa altre cose che io qui non devo neanche accennare,
ma che si riferiscono più specialmente alle divisioni che erano nel clero e alla vita
di noi sacerdoti, - e vostra eccellenza ha già fatto un grande lavoro di ricostruzione,
di cui solo Dio La potrà degnamente ricompensare.
Del resto vostra Eccellenza, se anche da qualche organo della s. sede,
o da qualche membro di Congregazioni romane, non avesse trovato
o non trovasse sempre tutto quell’appoggio che può desiderare, - Ella ha avanti a sé
gli esempi mirabili di San Carlo Borromeo e di San Francesco da Sales,
per tacere di altri santi prelati, e forse anche di Mg.r Guindani di cui ella stessa
più di una volta mi ha parlato con tanta venerazione ed affetto.
Coraggio, dunque, o mio caro padre, e stia forte della fortezza del Signore
ad proeliare proelia Domini! Al Vescovo appartiene particolarmente saper soffrire
e combattere fino alla morte, se fa bisogno, per la gloria del signore
e per la salvezza del suo gregge. - Io le chiedo perdono di osare scriverle così,
ma metta di avermi ai suoi piedi, le dico così d’inginocchio, con riverenza grande
e grandissimo amore di figliolo
Che se a Roma fosse successo qualche cosa, ella mi telegrafi
alla Nunziatura di Buenos Aires, - dove io suppongo che sarò
quando V. eccellenza riceverà questa mia.
L’indirizzo è questo: Nunziatura Apostolica Buenos Aires,
Calle Rionamba n. 1227.
______
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Io parto subito e vado a Roma, perché devo impedire un grave danno
alla mia diocesi: prima sono figlio della mia chiesa e di Vostra eccellenza e
poi sono missionario.
Però io prego vostra Eccellenza, appena mi può scrivere,
di levarmi questa spina dal cuore, - benché ho fede che ella sia tornata dalla visita
ad limina contenta.
Per oggi penso sarà meglio finire questa mia, e spedire,
e poi, appena potrò, continuare; diversamente dubito che la presente non finirebbe più!
Eccovi, o caro mio padre in Gesù Cristo, mi metto ai vostri piedi siccome a quelli di Gesù,
di lui voi nella diocesi mia siete il rappresentante e vi ringrazio delle vostre preghiere
e dei conforti che mi date con le vostre lettere piene di affetto tutto paterno.
Iddio ricompensi la vostra carità! Se con l’ajuto della grazia del signore,
potrò fare un po’ di bene, il merito è certo più vostro che mio, -
comunque ce lo divideremo in Paradiso, e spero che saremo vicini,
e
che potrò sedervi ai piedi come quei chiericuzzi
chierichetti che nei pontificali,
siedono su l’ultimo gradino del trono vescovile, e portano la calotta del Vescovo
e qualche altra cosa, che ora non ricordo e che non so più,
ma che lascio dire a don Francesco.
Caro mio padre e Vescovo in Gesù Cristo, datemi una bella benedizione,
una benedizione che mi venga dietro in tutti i paesi che farò. Io vi porto con me nel cuore
e sull’altare tutti i giorni, e penso tante e tante volte a voi, e ogni pensiero è una preghiera
Se non fosse per mancarvi di rispetto, vi direi non solo di lasciarvi baciare l’anello,
ma di permettere che spiritualmente e con dolcissima dilezione di figlio
Vi abbracci in osculo Sancto per dare conforto a voi, o mio buon padre,
e un po’ di conforto anche a me in Gesù Cristo, onde vi amo.
Io abbraccio anche don Francesco con l’affetto d’un fratello,
e abbraccio anche Filighera, il servo fedele - E saluto in Gesù Cristo
la buona Anima addetta alla Casa vescovile, e dio benedica anche essa di quella che fa
per vostra Eccellenza.
Ah è tanto bello amarci nel signore!
Quanto è soave la carità del Signore!
Ma, finirò. Beneditemi sempre!
Sono il vostro in Gesù Cr. e Maria SS.
Sac. Orione della Div. Pr.
Non ho tempo a rileggere, altrimenti non prende più la corsa, -
voglia riceverla come è.
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