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[Tortona, li] 16 luglio [191]7
Pro memoria
riservato a S. Eccell. Rev.ma
Mg.r G. Vizzini Vescovo di Noto -
Il I maggio di quest’anno ricevo la lettera del cav.r Mazziotta,
che allego in originale (Allegato n. I) con preghiera che voglia essermi ritornata
insieme a copia d’altra lettera ad essa unita. (Allegato n. 2).
Il cav.r Mazziotta è il corrispondente da Messina dell’Osservatore Romano,
amico personale di Mg.r Arcivescovo D’Arrigo, è cattolico praticante
e decorato dalla s. Sede.
La persona a cui la lettera n. 2 fu diretta,
lettera che comunico anche a vostra Eccellenza in copia fotografata,
seppi poi essere la figlia stessa del cav.r Mazziotta, rimasta da poco vedova,
e si capisce da questo grado di parentela
anche il desiderio del Mazziotta che si tenesse il segreto, che si provvedesse,
e anche parte dello sdegno che è nella sua lettera.
Io non potevo andare a Messina poiché il I maggio, quando ricevetti la lettera,
qui la città di Tortona era in balìa di una specie di rivoluzione, che durò più giorni,
ed ebbe uno strascico di panico per quasi 20 giorni, con seguito di arresti e di processi.
Telegrafai dunque al Mazziotta che avrei mandato a Messina
il sacerdote che è mio procuratore, persona fidatissima e prudente,
che già si trovava in quei giorni a Roma per le feste del beato Cottolengo,
che erano il 29 aprile. A lui, che è uno dei più anziani e si chiama don Sterpi,
doveva il Mazziotta far vedere il documento di cui mi scriveva, e, occorrendo,
consegnarlo anche ad tempus, perché io potessi esserne pienamente assicurato.
Al D. A. poi telegrafai di venire a Roma, desiderando incontrarmi con lui.
D. A., dopo quattro giorni, mi mandò il telegramma che unisco (Allegato n. 3)
Gli spedî telegraficamente L. 50, subito, con queste parole: «Telegrafami partenza.»
(vedi Allegato n. 4°.
Dopo ricevute le mie L. 50, si faceva dare altre L. 50
dal superiore di Reggio Calabria.
Egli mi telegrafava il 6 maggio, come da telegramma che unisco. (Allegato n. 5).
Il 7 maggio era lunedì; appena giunto a Roma, dove io, in qualunque modo,
non poteva ancora essere, poiché il telegramma mi era stato consegnato la sera del 6,
egli già telegraficamente sollecitata la mia andata, dicendo: «giovedì ritornerò
urgendomi motivi gravi famiglia» come da suo telegramma (Allegato n. 6)
Una grave situazione qui mi impedì di andare a Roma subito.
Il Direttore delle tre Case che abbiamo a Tortona, da Roma era andato a Messina,
come ho detto, per esaminare la cosa.
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Qui i moti del primo maggio e dei giorni seguenti avevano messo
in un panico tutta la gente d’ordine. I miei che sono a Roma furono avvertiti
e il don Aliffi pure dei fatti dolorosi avvenuti qui anche dopo il I maggio.
Come dissi qui era scoppiata una specie di rivoluzione.
Una turba di gente del basso popolo, con bandiere rosse, che portavano scritto:
Viva la rivoluzione russa - Abbasso la guerra! era diventata la padrona di Tortona.
Invasero le case, infransero mobili, percossero gente inerme, tutti muniti di bastoni,
sfogandosi specialmente contro i preti e contro i ricchi.
Al Vescovo ruppero per oltre 400 lire di soli vetri: furono sfondate le porte dell’Episcopio,
che venne invaso al piano terreno; ruppero tavoli, quadri, crocifissi, e salirono anche sopra,
ma non fecero a tempo, ché giunse truppa. Ma, anche coi rinforzi di truppa
continuarono anche nei giorni dopo.
Le cucine economiche Principessa Iolanda furono invase e letteralmente distrutte,
rompendo tavoli, piatti, asportando pentole, e così il nostro ricreatorio
diventò una desolazione. Ruppero anche due porte di questa Casa
e ci vennero a prendere a sassate in Casa.
Io dovetti nascondere il SS. Sacramento sotto i tetti, e ciò per più giorni.
Dopo il I maggio al solo negozio Marchese diedero un danno per oltre L. 10.000
in tanto formaggio, rubato, e ciò in pieno giorno e con tutta la P. S.
e la truppa accorsa in ajuto a questo presidio. Per otto giorni ebbimo un picchetto armato
notte e giorno in casa a difesa.
E quando chiesi al delegato di P. S. (poteva essere il 9 o 10 maggio)
se io poteva con qualche tranquillità assentarmi brevemente da Tortona,
mi fu risposto che non conveniva: che non potevano garantire nulla.
Al primo maggio io speravo che fosse stata la solita dimostrazione,
ma un po’ più accalorata, invece fu un allarme continuo per oltre 15 giorni, un aprire
e chiudere negozi, e Mg.r Vescovo credo che fino ad oggi non sia più uscito a passeggio.
Io non ho osato ancora chiederglielo, ma più d’una volta sono stato appunto
a fargli compagnia in Episcopio nelle ore che era solito uscire.
Io
Certo non potevo in quei giorni lasciare l’Istituto:
e a Roma don Aliffi lo sapeva
Pensi che la figlia stessa di Cadorna interessò da Roma telegraficamente suo padre
perché
affinché desse disposizioni al presidio di Tortona
perché gli orfani del Patronato Regina Elena che sono qui, e l’Istituto
fossero tutelati dalla teppa.
Io intanto devo anche dire che aspettavo di sapere dal don Sterpi
se il D. A. fosse o no colpevole. E poiché il don Sterpi tardava a rispondermi,
perché subito non potè incontrarsi col Mazziotta, io sperai con tutta la mia speranza
in quei giorni che il D. A potesse essere un calunniato.
E sì lo sperai che feci una promessa al Signore, e cominciai un triduo di penitenza.
E questo sia detto nel Signore.
Ma intanto il D. A., pure sapendo la dolorosa situazione di Tortona e mia
di quei giorni, forse sospettando che il don Sterpi fosse andato a Messina,
insisteva di volere partire da Roma, dove era giunto il 7; e il giorno 8 maggio
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mi inviava la lettera che le allego (n. 7) dandomi tre giorni di tempo; egli giunse il 7,
lunedì, e mi dice in essa lettera che se io entro «giovedì mattino al più tardi»
io
non giungevo «giovedì a mezzo giorno
ritorno indietro per motivi che di sopra
ho accennato», cioè per motivi di famiglia, dove poi non andò, o almeno se andò,
ci andò dopo molti giorni.
Ci fu dunque un momento che io potei sperare,
dal non potere il don Sterpi parlare col Margiotta, che fosse una calunnia,
ma
e allora telegrafai al D. Sterpi che andasse
dall’Arcivescovo
esponendogli il provvedimento di chiamare intanto a Roma l’A. dietro le referenze avute,
e di sentire il parere dell’Arcivescovo, mentre io ho telegrafato al D. A.
proibendogli di ritornare, finché luce non fosse fatta o l’Arcivescovo non avesse detto
che poteva farlo ritornare. Veda Allegato n. 8
Vostra Eccellenza rev.ma comprenderà che, come superiore,
non potevo agire, col divino ajuto, diversamente. Come vostra Eccellenza
può constatare questo mio telegramma (Allegato n. 8) porta la data del 9 maggio.
Ma in quel mentre don Sterpi potè incontrarsi col Margiotta (che non aveva potuto
essere avvertito del giorno che lo Sterpi giungeva a Messina), e giustificò ampiamente,
anche altrimenti, il non avere potuto ricevere in casa il don Sterpi.
Si seppe allora che la tizia era la stessa sua figlia, ed il Mazziotta fu molto retto
con il don Sterpi e consegnò la lettera stessa, lettera che il don Sterpi ritenne
senza nessun dubbio tutta di pugno del D. A., ed egli, come me, è in pieno grado
di conoscere la sua calligrafia.
Fu allora che telegrafai al Superiore della Casa di Roma, dove stava il D. A.
queste parole: «Comunicherai ad Aliffi che gravissimi motivi che dirò a voce
obbligarmi dolorosamente proibirgli ora suo ritorno Messina dove già ho provvisto.
Impedito io venire venga lui qui senza timore.
Confortalo fraternamente ad ubbidire» Orione
Ho saputo poi che questa disposizione che non so se potesse essere più paterna,
scatenò un tempesta.
Fatto sta che egli invece di venire a Tortona dove gli era stato comandato,
malgrado anche tutti i consigli e le preghiere dei suoi confratelli di Roma,
volle ritornare a Messina, dove gli era stato proibito.
Se anche la sua relazione con colei fosse stata non dico certa,
ma dubbia, io non potevo più permettere che subito ritornasse a Messina.
È cosa tanto evidente! Sentito che egli assolutamente voleva tornare a Messina,
e taccio ciò che disse a più persone, disposi che il don Sterpi si trovasse a Villa S. Giovanni
per incontrarlo, e indurlo a tornare indietro e dirgli, occorrendo, verba salutis;
ma a Roma è stato intercettato un telegramma, e quindi benché il don Sterpi si sia trovato,
l’altro non comparve. Al tribunale di Dio sapremo poi in mano di chi andò a finire
quel telegramma, e a voce dirò di più. L’altro comparve a Messina dopo,
quando il don Sterpi aveva dovuto pure partire.
A Messina fino a quel giorno nessuno sapeva nulla, eccettuato Mg.r Arcivescovo,
al quale il don Sterpi aveva dovuto dire qualche cosa perché era dovere,
tanto più quando seppe che il D. A. sarebbe tornato.
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E qualche cosa si dovette pure dire al sacerdote mandato a sostituirlo,
perché si regolasse con prudenza.
Giunto dunque il D. A. a Messina, da più dati mi risulta che si mise a commovere
la popolazione, facendosi vittima, e creando lo scandalo. Egli invero non manca di abilità,
e, pur troppo, qui la adropò assai male; ma la sua scaltrezza tutta umana
in cui egli fida tanto, non lo salva, ma lo affonda, perché Iddio non può essere
con chi non sa umiliarsi e confessare il suo peccato; egli anzi usa tutte le arti
per trarre possibilmente in inganno chi non è al corrente di tutto.
Lo dico con grave dispiacere, ma, pur troppo, codesto figlio fa così.
E per me non c’è peggior cosa che il resistere nel fingere.
Da Messina mi scrisse che usciva di Congregazione
e infatti senz’altro andò ad abitare altrove.
Appena giunto lui a Messina cominciarono a giungermi sottoscrizioni
di gruppi di donne e di qualche uomo, proteste di rivolgersi al Papa etc.
Io nulla risposi, come nulla aveva detto.
Guai se un superiore, per motivi che egli sa, non può più trasferire
da un luogo ad un altro un suo religioso. Si capiva in quei giorni che il D. A.
voleva ad ogni costo spuntarla e restare a Messina; ma appena partito lui,
nessuna protesta giunse più.
Egli però deve avere armeggiato tanto che Mg.r Arcivescovo
pare che abbia creduto bene finirla, e fissargli un giorno
con cui non potesse più celebrare. Io non entrai in questo, e quindi preciso non lo so;
ma a Messina si disse: fino a domani può celebrare e poi più. Il fatto sta che,
proprio il giorno che si diceva scadergli le facoltà (come corse voce) -
egli senza nulla scrivermi e senza preavvisare alcuno,
andò a mettersi al nostro Istituto di San Prospero in Reggio Calabria.
Era chiaro il suo disegno: da Reggio a Messina breve è il passo.
Da Reggio gli era facilissimo tenere viva l’agitazione e tenere viva la passione.
Da Reggio mi scrisse la lettera che unisco.
E don Ferretti, superiore di Reggio mi scrisse pure una lettera che parimente unisco.
Ma il don Ferretti, mentre è un angelo di sacerdote, non è tale da potere influire
sul don A., e ho pensato che questi, calcolando sulla semplicità e sconfinata bontà del
Don Ferretti, contasse appunto di poter fare a Reggio sotto di lui tutto quello che voleva.
Il modo poi tenuto nell’andarsi a mettere a Reggio poteva almeno parere
un prendersi gioco di me e anche dell’Arcivescovo, se è vero che questi
gli aveva proibito di stare a Messina, come glie lo avevo proibito io.
L’ordine dato era: a) di non andare a Messina; b) di venire qui.
Ordine reciso, chiarissimo, per quanto dato con carità.
Io non lo condannai: dovevo allontanarlo da Messina, e, per quanto era in me,
l’ho fatto.
Doveva chiamarlo qui, e l’ho fatto, - egli invece mi andò sempre
il più lontano possibile.
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A voce gli avrei detto tutto e sottoposta la lettera stessa. Se c’erano discolpe da fare,
poteva fare tutte le sue discolpe se davvero fosse stato innocente; e, se colpevole,
avremmo pianto insieme davanti al crocifisso e lo avrei ajutato da padre in Gesù Cristo
e nessuno avrebbe saputo nulla.
Anche qui lo avrei mandato a farsi gli Esercizî Spirituali, - questo sempre.
Ma io, ripeto, benché lo ritenessi e lo ritenga senza verun dubbio colpevole,
so di essere stato pieno di longanime carità, e non lo condannai.
Vostra Eccellenza, del resto, avrà notato dalla mia prima lettera la delicatezza,
che, con l’ajuto del Signore, vado usando a riguardo del D. A.,
e la estrema lentezza con cui vado scrivendone.
Quando seppi che egli si era andato a mettere a Reggio,
non Le dico il dolore che ne provai. E in coscienza sentî che non potevo lasciarlo colà,
così vicino a colei, - e mi premeva anche che Mg.r Arcivescovo di Messina
neanche lontanamente potesse dubitare che io permettessi al D. A. di risiedere così vicino, -
era quasi un farmi connivente nel male, e Mg.r Arcivescovo avrebbe avuto
ogni ragione di lagnarsene.
Allora nel timore che, telegrafando all’Istituto San Prospero,
cioè al direttore don Ferretti, il telegramma potesse essere intercettato,
come era capitato ad altro telegramma, di cui sopra ho detto,
credetti nel Signore dovermi rivolgere a Mg.r Rousset, Arcivescovo di Reggio Calabria,
e per quel tramite far conoscere chiaramente al D. A. che la sua disinvoltura
di dire che stava a Reggio, in attesa che io andassi a Roma ove potevamo incontrarci
per discutere, esaminare, ecc., non mi ingannava: a Reggio, come a Messina,
non poteva permettergli di restare.
Inviai dunque questo testuale telegramma in data 21, V - 1917
Arcivescovo Rousset - Reggio Calabria
Prego umilmente Vostra Eccellenza chiamare Ferretti
comunicargli dica a Matteo che dolorosamente nulla ho da discutere.
Per motivi gravissimi non posso permettergli ulteriore permanenza Case Messina Reggio.
Lo aiuterò con carità ma con coscienza col Vescovo benevolo presso cui vuole sistemarsi.
Rivolgomi vostra Eccellenza perché telegramma non venga come altro intercettato.
Ringrazio - Orione
Il D. A. mi rispose col dispaccio che unisco,
dove egli stesso chiedeva di permettergli di venire provvisoriamente alla Colonia di Noto.
Risposi con la lettera che unisco ( La copia che invio non sarà proprio esatta,
ma lo spirito onde quella lettera era informata e il suo contenuto era tale.
Se il D. A. non l’ha distrutta, ella vedrà meglio da quella che ha lui.
Non ho più insistito che venisse qui perché egli ripetute volte
aveva addotte urgenti necessità di famiglia. Concedendogli di venire a Noto,
egli doveva vedere che io, dove potevo, lo agevolava nei suoi desiderî e bisogni.
Non so poi se sia andato a casa; subito pare di no, - quindi tutta quell’urgenza
pare non ci fosse.
Da
Noto mi scrisse che se
lo consigliava a recarsi a Messina per fare causa.
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Se era innocente, non capisco perché, quando c’era, non sia andato dall’Arcivescovo
e non l’abbia fatto.
Per chi sa le cose tutte come le so io, ed ha la mia certezza, non poteva rispondere:
andate a finire di demolirvi. Io stesso poi avrei dovuto trovarmi
nella ben dolorosa necessità di dovere fornire io stesso una ben grave prova
della sua consapevolezza, come altra volta scrissi.
Ma neanche gli scrissi proibendogli di difendersi: se egli si ritiene innocente,
lo faccia pure. - Egli, ultimamente, mi diceva di fare esaminare quella lettera.
Ma io, benché non abbia, pur troppo, nessun dubbio, l’ho fatta sottoporre a periti calligrafi
con altre sue lettere, e non vi è nessun dubbio.
Ma io non so come potessi andare più cauto.
Veda vostra Eccellenza un altro mio telegramma che inviai in quei brutti giorni
a Messina, quando ebbi un dubbio perché il Mazziotta non si era subito fatto vedere.
Ordinai al don Sterpi che il Mazziotta fosse chiamato davanti all’Arcivescovo,
e interrogato da lui stesso.
Come mai il don Ali, quando era a Messina, non ha fatto almeno questo,
se egli è innocente?
Eccellenza, qui non si tratta di una firma falsificata, ma di una intera lettera,
ritenuta autentica da persone competentissime e da periti calligrafi.
Io avrei data occupazione e altra destinazione al D. A.
se egli fosse sempre stato conseguente, ma un po’ dice di voler restare in Congregazione
e un po’ dice di voler andarsene.
Io l’ho chiamato qui, e qui non venne con la scusa o la ragione della famiglia:
gli ho detto di fare i santi Spirituali Esercizî e di inviarmene il certificato,
e gli Esercizî non deve averli fatti perché in tutte le sue lettere non me ne parlò più.
Come scrissi a vostra Eccellenza nella prima lettera, credo che abbia bisogno
di essere ajutato nella vita spirituale e gli ho aperte le braccia di venire presso di me,
dove lo avrei accolto con affetto di padre in Gesù Cristo, e poi vedendo
che non intendeva venire, gli ho segnato le Case dove fare gli Esercizî Spirituali.
Lui sa che col 2 agosto cominciano a Bra gli Esercizî Spirituali
di noi della congregazione, - io gli provvederò il viaggio e venga!
sarà accolto con la stessa carità.
Ora mi scrive che lo faccia accettare in diocesi di Siracusa.
Per me, se Mg.r Bignami lo accoglie, io ne sarò ben lieto,
però contro coscienza non andrò mai; - se è che vuole una raccomandazione
io glie la faccio, ma finché la cosa è come è, non posso fare tutto ciò che il cuore vorrebbe.
Egli scrive delle lettere che mi fanno tanto pena, perché non ci vedo lo spirito che vorrei.
Perché adirarsi con me di trovarsi a Noto, se a Noto chiese lui di venirci?
E potevo io dirgli: va a Noto e fa, finché egli non mi dà modo di poterlo credere innocente
o almeno pentito? Ma avesse almeno fatti i S. Esercizî!
Se mai innocente, avrebbe trovato quel conforto che gli uomini non sanno dare;
e, se colpevole la forza per rialzarsi e riparare con una vita di preghiera di penitenza
e di lavoro per le anime.
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Nessuno più di me aborre dall’ozio, ma non avrei cuore di raccomandare
un prete che non fosse di buona vita, e che prima non mi avesse dato segni di pentimento.
Io poi non ho alcuna difficoltà di rimettere tutta la cosa
nelle mani di vostra Eccellenza rev.ma, e questa sarebbe anzi per me una carità,
poiché il D. A. rivela dalle sue lettere dell’amarezza e diffidenza.
Io non l’avrei detto questo, e sarei volentieri passato su ogni offesa ed ingiusta asserzione.
Ma dacché egli forse con me, o per verità o ad arte, dice di diffidare, -
è una grazia di Dio per me e per lui che abbia trovato il cuore paterno
di Vostra Eccellenza pieno di ogni santa disposizione.
Quanto alla Colonia, mando appositamente a Noto il don Cribellati
perché veda lo stato delle cose, e mi riferisca.
Le bacio con profonda venerazione il sacro anello, e le sono in Gesù Cristo
e Maria SS. dev.mo Servitore
Sac. Orione Luigi
della Div. Provv.za
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