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[Da copia stampata]

Il Vangelo

Domenica fra l’Ottava del Corpus Domini.

(Luc., XIV,16-24).

La parabola del gran convito.

(Matt. XXII, 1-14).


Gesù disse questa parabola:

Un uomo fece una gran cena, e invitò molti. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati: - venite, ch’è pronto - . Ma tutti, a una voce, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo: ti prego, abbimi per iscusato. E un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi, e vò a provarli: abbimi, ti prego, per iscusato. Un altro ancora disse: Ho preso moglie, e quindi non posso venire. E il servitore tornò, e riferì queste cose al suo padrone. Allora, sdegnato, il padron di casa disse al suo servo: presto và per le piazze e contrade della città; e mena qua mendici, storpi, ciechi e zoppi. Poi disse il servo: Signore, s’è fatto, come hai ordinato, e ancora c’è posto. E il padrone disse al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e costringili ad entrare (1), che si riempia la mia casa. Perché io vi dico che nessuno di coloro, ch’erano stati invitati, assaggerà la mia cena”.

Gesù fu invitato a certo banchetto da uno dei principali farisei, che fu, forse, Giuseppe da Arimatea. Era in giorno di sabato. E il suo discorso al banchetto del fariseo, benché non uscisse mai dai pensieri del convito, si elevò a poco a poco alle più alte verità di religione. Gesù volle innalzare gli animi dei presenti e dei futuri al convito di Dio, cioè alla Chiesa, vivente in lui la doppia vita del tempo e della eternità, militante nell’una e trionfante nell’altra. Cristo, vero Signore delle anime, invita al grande e mistico banchetto del regno di Dio prima gli Ebrei, che ricusano, ritenuti la massima parte delle loro passioni, dal pensiero e dall’attacco ai beni di questo mondo, e poi vi invita la moltitudine grande dei gentili. Questi, mendici, ciechi, monchi e zoppi nella vita spirituale e nella vita del pensiero e degli affetti, raccolti da diverse contrade, vengono alla Chiesa, al grande convito della fede e della grazia, forzati, a così dire, dalla efficacia della parola divina e dall’evidenza de’ miracoli. Qui sono gettate le fondamenta di quell’amore per tutti i popoli e per i miseri, ch’è la più bella gloria del cristianesimo. Quanto ammirabile e grande è mai questo mistico convito, a cui Gesù Cristo invita le anime; esso è la Santa Eucaristia in cui Gesù, per un amore infinito, si fa cibo delle anime nostre. Convito grande, pel Signore che lo dà, che è Dio! Grande, pel numero de’ convitati, che è l'universalità dei fedeli.











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Grande, per la sua dignità: la santità che dà il diritto a sedervi. Grande, pel cibo divino che vi è preparato: la Carne e il Sangue del Signore.

Grande, per gli effetti: ci unisce e incorpora a Gesù Cristo. Grande, per la sua estensione: che, come la Chiesa Cattolica, abbraccia tutto il mondo. Grande, per la sua durata: come la Chiesa avrà fine alla fine dei secoli, e il divino convito dell’Eucaristia, si perpetuerà, rinnovamento del mistero della redenzione del genere umano. Tutto è pronto: venite, o uomini, e avrete la vita spirituale e la benedizione di Dio nel tempo, nonché la gloria di Dio nella eternità. Ma tutti, di concerto, cominciarono a scusarsi. I progetti di ingrandimento, i beni temporali, i piaceri della vita sono qui al vivo rappresentati dalle tre scuse recate innanzi per esimersi dal convito. Ebbene, i principali motivi onde molti di noi stanno lontani dall’Eucaristia sono appunto questi; ma sempre non si ha tanto di sincerità da confessarli, come chiaramente fecero i renitenti del Vangelo. Si cerca di colorire la insensibilità, e si suole dare alla nostra indifferenza un pretesto plausibile in generale, scusandoci di non sentirci abbastanza puri per parteciparvi. Siamo indegni! ecco la scusa più comune e più pericolosa, siccome quella che nasconde un fondo di freddezza e di opposizione all’invito di Gesù sotto un simulacro di rispetto, e, a meglio distruggere la fonte viva della pietà, che è appunto l’Eucaristia, della pietà prende, a prestito le sembianze.

È questo il linguaggio insidioso di quelli che vivono una vita cristiana di tiepidezza e di rilassamento: che vogliono restarsene tranquilli nel loro peccato, o vivere di una vita cristiana anemica, tisica e peggio, sempre col cuore attaccato ai beni e agli affetti mondani. Temono non già, come dicono, l’abuso dell’Eucaristia, ma i sacrifici che essa esige.

Parliamo chiaro. La purezza per comunicarsi, esaltata da voi con giusta ragione, non vi allontana dal Sacramento, se non perché voi non volete decidervi con fermo proposito ad acquistarla. Il motivo vero per cui state lontani dalla Santa Comunione è la fiacchezza, se non forse la depravazione della volontà e, Dio non voglia, del vostro cuore. La vita vostra sentite pure che non è quale dovrebb’essere, e quindi voi concludete che non dovete comunicarvi, mentre dovreste invece dalla obbligazione che si ha di andare a Gesù e di comunicarci, trarre la logica conclusione che è pur necessario riformare la vostra vita ed essere cristiani. Che penserete voi di colui, che ricusasse il cibo perché è debole, o la medicina perché malato? Egli è dall’Eucaristia che si attinge la perfezione, non è dunque necessario portarvela, ciò che è necessario portarvi è la grazia di Dio.



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Elia era, certo, nella grazia del Signore, eppure anch’egli sentì un istante di debolezza. Già stava per soccombere, oppresso dalla stanchezza e dallo spavento, alle minacce di Gezabele; ma discese a lui un angelo, e gli portò un pane celeste. Fortificato da quel pane divino, si alza e cammina per lunghe giornate sino all’alta montagna dell’Oreb.

Quello che l’angelo disse a lui, dice Cristo alle anime in peccato, e a quelle che vivono nella tiepidezza cristiana: “Sorgete e mangiate; un gran viaggio vi resta a fare. Con la forza che vi darà l’alimento che vi porto, camminerete agilmente sino alla sommità del monte di Dio”. (III Reg. XIX, 7-8). Le scuse addotte dai convitati per dispensarsi dall'intervenire al banchetto sembrerebbero a prima vista, abbastanza ragionevoli. Eppur il padre di famiglia si sdegnò. Tale e ben più legittimo sarà lo sdegno di Dio contro di noi, se avremo trascurato di andare al suo mistico convito. Nessun pretesto, nessun motivo, per quanto appaia ragionevole, varrà a giustificare noi e ad appagare Dio. E quale sarà dunque il castigo onde siamo minacciati? Sarà di non gustare in eterno della sua cena. La nostra stessa colpa si volgerà contro di noi, e sarà nostra pena in eterno. La privazione della manna celeste, del pane degli angeli, sarà la prima pena per noi, se noi l’avremo disprezzata; pena tanto più terribile, quanto che neppure la sentiremo. Siamo stati freddi, apatici, insensibili agli inviti di Dio? e Dio ci colpirà d’insensibilità; perderemo tutti i beni di cui la SS. Eucaristia è feconda, e non ne proveremo rammarico! Non avremo in noi la vera vita, la vita della grazia, la vita sovrannaturale e divina, e non desidereremo di averla; saremo morti a Dio, e quasi non ce ne accorgeremo! Avremo perduto ogni diritto all’eterna salute, e non ne sentiremo afflizione! Oh noi infelici! L’anima nostra, priva dell’alimento che dovea sostenerla, cadrà in uno sfinimento, in un letargo donde non cercherà neanche di uscire, e non ne avrà più la forza; dove, per colmo di sventura, si compiacerà di giacere, e donde, che Dio nol permetta mai nella sua misericordia infinita, non sarebbe tratta che dalle convulsioni dell’ultimo momento fatale. Ma chi son quelli, che il Padrone fa cercare e raccogliere e venire alla sua Chiesa, dalle piazze e dalle vie della città, dalle strade campestri e da lungo le siepi? Costoro erano dunque gente senza casa, o fuori e lontana dalla casa, era gente dispersa e abbandonata. Chi son essi?. Sono i poveri, i ciechi, gli storpi, cioè tutti gli afflitti dai dolori morali e dalle miserie della vita. Tutti gli umili, tutti quelli che dal mondo sono disprezzati e avuti a vile.


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Sono i disingannati sul valore dei beni terreni, che han rivolto le loro speranze a quelli del Cielo, e cercano la loro felicità non nelle ricchezze, non negli onori, non nei piaceri del mondo; ma in quel Dio che solo può dare agli uomini pace e felicità; a quel Gesù, che nel SS. Sacramento dell’altare si nasconde ai sensuali ed ai superbi, e si manifesta agli umili ed ai puri di cuore.

E Gesù non solamente non li rigetta, come non li ha rigettati mai la Chiesa, ma fa degli umili e dei poveri il tesoro della sua Chiesa, come rispondeva al tiranno il grande diacono o martire della Chiesa Romana San Lorenzo. Gesù li attira, li stimola e fa loro dolce violenza ad entrare. Erano pur grandi i doni che Dio ci aveva dati: la vita, la fede, la speranza, la carità, le virtù morali e poi tante grazie, sino a questo dì.

Ma egli volle fare di più, oh molto di più! e ci ha dato Se stesso interamente nell’Eucarestia! Non solo dunque quanto Egli ha, ma quanto Egli è. E questo dono della Santa Eucaristia non l’ha riservato alle anime vergini o a dei privilegiati, ma l’ha dato per tutti, e, quasi direi, di preferenza ai più deboli nella virtù e ai più doloranti: agli infermi di ogni languore, ai poveri, ai ciechi per ignoranza, agli storpi, a noi tanto imperfetti. Sì, a noi afflitti da tanti mali spirituali, a noi tanto peccatori, a noi viene e si è dato il Dio di ogni santità! Il nostro posto è dunque là, alla mensa del Signore! Là per essere guariti, là per essere illuminati, per essere consolati, nutriti, vivificati dalla stessa sua vita divina. La Chiesa chiama questo Sacramento: Pignus futurae gloriae - pegno della resurrezione e della gloria futura. Cos’è questa gloria futura? e in che consisterà quella resurrezione e felicità eterna che ci promette? No sarà, o fratelli, non sarà che una comunione continua: un unione intima, perenne con Dio, da cui deriverà una conoscenza così perfetta che escluda il mistero. E` qualche cosa di sublime, di inebriante: è il Paradiso! Ma unioni sì intime non si possono annodare tutto ad un tratto. Anche quaggiù, quando si vuol stringere amicizia o unione, si va per gradi, precedono preliminari più o meno lunghi. Ebbene, o fratelli e amici miei, anche la Provvidenza ci viene educando gradatamente a questa unione: l’Eucaristia è indirizzata ad abituarci ad essa; e la comunione Eucaristica è il celeste pegno e il riannodamento di questa vita colla futura. Eleviamoci dunque in alto, sino a quel sublime mistero e Sacramento di amore, e andiamo umili o fidenti a Gesù: l’Eucaristia “è il pane di vita: chi mangia di questo pane, avrà la vita eterna”.






(1) Costringi ad entrare, non colla forza, ma con la dolce violenza della persuasione e dell’amore.

Chi desidera di questi foglietti, per diffondere il Vangelo nelle famiglie, si rivolga a Don Orione - Tortona.

Con permissione Ecclesiastica.