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[Da copia stampata]

Ecce Quam Bonum….


Dal piroscafo “Re Vittorio”

il 24 giugno 1922.


A gloria di Dio Benedetto!


Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum!

Sant'Agostino, appunto nell'Enar. in Ps. CXXII, dice che la carità e unione fraterna fu la madre delle comunità religiose. E noi, figli poverelli della Divina Provvidenza, tanto, per la grazia del Signore, lo sentiamo, che ogni anno, e nel riunirci e nel dividerci dopo i santi spirituali esercizi, ci abbracciamo cantando a coro questo piccolo ma grande salmo, che celebra i beni della carità fraterna e le pure gioie della santa vita religiosa; e lo cantiamo, nel dividerci, non una, ma tre volte, con dolcissime lagrime di amore e di dilezione purissima.

Ecce quam bonum et quam jucundum habitare. fratres in unum!

Questa cara odicella, tutta spirante aure orientali, decanta, come ho detto, i pregi dell'amore fraterno, più anzi: i precipui beni e i vantaggi della carità, e di quella carità



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nella quale noi religiosi dobbiamo essere radicati et fundati come vuole l'Apostolo.

Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum!

Come voi ben sapete, si compone questo salmo di soli quattro versetti, in ciascuno dei quali è segnalato uno dei quattro vantaggi della santa unione delle anime in Dio, della fratellanza cristiana e soavissima carità religiosa. Essi sono: a) l'ineffabile dolcezza - b) il buon odore di edificazione - c) la spirituale fecondità - d) la copia di tutti i doni celesti, onde son benedetti da Dio i fratelli concordi, e le anime tutte che vivono della carità di Nostro Signore.

E in prima: “Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum”. Oh, quanto buona e quanto gioconda cosa è il vivere dei fratelli concordi!

E vedete che “fratelli”, va inteso non unilateralmente, quasi si volesse parlare solo di noi uomini; ma di tutte le anime si parla, le quali vivano nell'armonia dello spirito, nella pace e concordia dei cuori, per l'amore di Dio benedetto.

Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum!

Vuol dire che vi hanno sulla terra delle cose buone che, per sè, non sarebbero gioconda, come la penitenza, i digiuni, l'annegazione di sè e simili altre; e vi ha poi delle cose gioconde, che non sono buone, come tutti i piaceri cattivi, sensuali e morbosi; ma questa della carità scambievole è forse la sola virtù che è tutt’insieme, buona e anche

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gioconda: Ecce quam bonum et quam jucundum!

Anzi, appena potremmo credere di trovarci in esilio, ma ci parrebbe di essere in patria, se non fosse mai turbata la carità e l'unione fra gli uomini: vi sarebbe un piangere con quelli che piangono, un godere con quelli che godono: un non sospettare di nessuno, un confidare di ciascuno in tutti e di tutti in ciascuno: un dare più frequente che il ricevere, o, più veramente, una comunanza che non ammetterebbe né il mio né il tuo - frigidum illud verbum -, e una unità di pensiero, di volontà, di parole: di gioie e di dolori, di timori e di speranze, che poco più ci rimarrebbe, quanto a ciò, a desiderare in Paradiso.

Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum!

Ma, a questo bene nostro, che è la soavità e la felicità della vita, il Salmista soggiunge un secondo vantaggio, che è quello della edificazione altrui.

E gli odorosi olii sparsi sul capo di Aronne (come si legge nell'Esodo al Cap. XXX, 23-39 e nel Levitico, VIII, 10-12), olii benedetti che colavano ad Aronne, per la lunga barba fino all'estremo delle vestimenta, fìguravano appunto il buon odore di edificazione, che di sè spandono intorno i fratelli concordi e tutte quelle anime di Dio e Comunità Religiose che umilmente nella fedeltà della loro vocazione, coltivano la pace e la fraterna unione e carità.

Sicut unguentum in capite, quod descendit in barbam, barbam Aaron, quod


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descendit in oram vestimenti eius” (versicolo 20 del Salmo).

E chi non vede non poter essere che edificante una società, una comunità bella, forte e pacifica? Pace, forza e bellezza che necessariamente provengono dalla concordia e dalla unione fratellevole.

L'unione, infatti, che non è altro che unità nella molteplicità forma la bellezza: onde Platone già diceva: pulchritudo unitas in varietate. E così in Andrè: “Essai sur le beau”.

Per questo, vedete, è lodata nelle Sante Scritture la bellezza dei padiglioni d'Israele, lo spettacolo di seicentomila guerrieri e di oltre a due milioni di credenti distribuiti in dodici campi, che viaggiano in una immensa pianura, e si posano, e si ordinano sotto le armi e combattono e vincono, come un solo uomo, e costringono i loro stessi nemici ad ammirarli e ad esclamare: “Quam pulchra tabernacula tua, Jacob, et tentoria tua, Israel!”

Oltre di ciò l'unità nella varietà e molteplicità forma e mantiene la pace fra gli uomini. E un cuor solo e un'anima sola, in una moltitudine e varietà di fedeli, è ciò che viene celebrato negli Atti degli Apostoli. E’ questo il fatto che nei primordi della nostra Santa Chiesa edificava maggiormente i Gentili, i quali dicevano: “Vedete i cristiani come si amano! Essi sarebbero pronti a morire uno per l'altro”. Così riferisce Tertulliano nell'Apologetico.

In un'ardente giornata del secolo IV dell'era cristiana, un soldato romano entrava colla sua legione in Tebe d'Egitto. Egli era di famiglia pagana, e chiamavasi Pacomio.



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I suoi compagni, spossati dalla fatica e dalla fame, già cominciavano a cadergli d'intorno, quand'ecco dalle case e dai vicini recinti uscire uomini, donne, fanciulli, che, mossi a compassione, recavano soccorso e, con sollecitudine delicata e paziente, chi medicava le ferite e chi forniva cibi  e vivande per ristorarli.

Pacomio domandò chi fossero quegli ignoti benefici, e gli fu risposto che erano cristiani.

Nella notte Pacomio non dormì, meditò e pianse. Egli sentì che entrava in una grande e divina luce, in una grande e divina onda e vita di dolcissima e di sovrana Carità.

Sentì Pacomio che solo Dio, “che tutto di sé riempie, è conforto dell'anima e vera letizia e felicità del cuore”. Si sentì affascinato da Dio e pur libero in Dio della più alta libertà dei figli di Dio, e che Cristo-Dio era nato in lui, era vivo entro di lui, ardeva nel suo petto: Cristo era stato in lui edificato dalla carità di quei cristiani, di quei fratelli concordi nella carità del Signore. Cristo sorgeva dalla carità, ed era Carità.

Comprese Pacomio che dall'unità del vero e dalla vera fede nasceva quell'unione cristiana degli animi e da questa il desiderio vivo d'essere agli altri di benedizione: sentì il suo spirito quanto sia vero ciò che il pio Autore della Imitazione di Cristo, avrebbe poi scritto, da umile figliuolo di San Benedetto, parecchi secoli dopo, che “Nil altum, nil


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magnum, nil graturm, nil acceptum, nisi Deus, aut de Deo sit”, e che una scintilla di carità vera vale ben più che tutte le cose terrene, piene di vanità. “O qui scintillam haberet verme charitatis, profecto omnia terrena sentiret piena esse vanitatis!” (Imit. Christi, Lib. I, Capitolo XV,- 11).

Pacomio quella notte non dormì: Gesù gli stava nel petto: Gesù lo aveva tratto da un abisso di tenebre ad una luce, ad una vita nuova e divina: Gesù lo chiamava a sè con la dolcissima e celeste forza della carità. Onde Pacomio, non potendo più resistere, e pur liberamente volendo seguire Cristo, uscì dalla sua tenda ed, agitando la spada verso il cielo, esclamò: “O Dio dei cristiani, che insegni agli uomini a tanto amarsi l'un l'altro, anch'io voglio essere uno dei tuoi adoratori!”

Poco tempo dopo quel soldato riceveva il battesimo, diventava poi un santo, e si univa al grande S. Antonio Abate nel condurre alle solitudini dell'Egitto quelle schiere di solitari che vi coltivarono per tanti anni le terre, l'industria e le lettere, e sovratutto, la santità nella fraterna e dolce carità.

Quell'anima guerriera, che non era mai stata domata dal ferro, era stata vinta dalla carità. Oh com'è bella questa virtù! Il Paradiso stesso non sarebbe Paradiso senza carità, perché un Paradiso senza carità sarebbe un Paradiso senza Dio. Infine nessuno ignora che l'unità nella molteplicità costituisce la forza, come di un popolo e di una società, così di un

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ceto e di una comunità religiosa qualsiasi.

Chi accresce l'unione accresce l'amore verso i fratelli, che è veicolo dell’amore di Dio, e accresce la forza spirituale, e va a formare sempre più in Gesù Cristo un solo cuore e un'anima sola. Ma, chi diminuisce la carità, diminuisce pure la forza del bene operare. La forza dei Religiosi sta nella unione, il cui vincolo è Gesù Cristo e la santa madre Chiesa, la madre di Roma.

Da questa nostra umile, filiale e fraterna unione noi sentiremo tutta la nostra forza: ci sentiremo come l'esercito di Dio bene ordinato: ci sentiremo, ed effettivamente saremo, l'esercito del Signore formidabile ai nemici di Lui ed invincibile.

Vis unita fortior, dicevano già gli antichi, mentre il Vangelo dice: regnum in se divisum desolabitur. Ma chi mai di noi vorrai essere debole e, più, diviso da Cristo, perché non così unito santamente e intimamente dalla carità ai suoi fratelli? Chi vorrà essere un debole e un separato nella carità, dopo che Nostro Signore ci ha dato il nuovo e grande comandamento: “Amatevi gli uni gli altri”? Anzi dopoché disse: “Com'io v'ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri”? Dopo che pur aggiunse: “Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli: dall'amore che avrete gli uni per gli altri”? (Giov. XIII, 34-35).

Dunque, come la carità si vede che è il precetto del Signore, il precetto proprio di Cristo, così lo spirito del Signore non solo è spirito di unione e di carità, ma è sorgente di

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forza morale e spirituale; e anche il Santo Padre nostro Benedetto parla nella Regola di questa forza divina, che separa dai vizi “et ducit ad Deum et ad vitam aeternam”, onde vuole che i monaci “zelum ferventissimo amore exerceant”; vuole che “caritatem fraternitatis caste impendant” (Cap.  LXXII).

Ma una società o comunità bella e forte, dove vive la dolce concordia dei cuori e la pace, non può non essere cara e desiderevole di edificazione a tutti, come, per contrario, sarebbe sempre dì malo esempio, e fin dispregevole presso tutti, una associazione o comunità religiosa debole, disordinata e dilacerata da discordie intestine.

E qui ponete ben mente che il Salmista non senza ragione somigliò questo odore di edificazione non a una fragranza qualunque, benché squisitissima, sì bene alla fragranza degli unguenti, onde fu consacrato il sacerdozio di Aronne, perché l'amore santo e scambievole, di cui parla il Salmista, non è che l'olio della divina carità, onde fu inunto il vero Aronne, cioè Gesù Cristo Signor Nostro.

Quest'olio fluì sulla sua barba e gocciò fino al lembo della sua veste sacerdotale, poiché (dice acutamente S. Agostino), la barba di Nostro Signore Gesù Cristo sono gli Apostoli e i martiri, essendo la barba segno di forza, di gioventù, di energia: “illud primum unguentum descendit in Apostolos, descendit in illos qui primos impetus saeculi sustinuerunt”.

Quell’unguento di divina carità da Cristo discese negli Apostoli e discese in quelli


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che, primi, sostennero l'impeto del mondo contro il cristianesimo, contro la Chiesa nascente, cioè i martiri.

La veste poi di Gesù Cristo, come ognun sa, è la Santa Chiesa universale, la Chiesa cattolica, che il nostro Manzoni sublimemente chiama: “Madre dei Santi”, è unica conservatrice “del Sangue incorruttibile”, di Cristo, cioè della Carità.

Ora l'ultimo lembo di questa veste indivisibile di Cristo, che è la Chiesa, è il privato e più umile stato della medesima, che è il nostro stato religioso, cioè sono quelli che, per questa unzione della carità, si adunarono nelle congregazioni religiose e nei monasteri.

Si neque a barba descendisset unguentum, modo monasteria non haberemus”, è sempre l'alta mente di Agostino. E vuol dire: se dagli Apostoli e dai martiri non ci fosse fluito lo spirito della carìtà di Nostro Signore, né noi avremmo i monasteri, né avremmo alcuna altra comunità religiosa, perché la carità è stata ed è la madre delle Comunità.

Ma la concordia e l'unione degli amici ci arreca un terzo vantaggio, che è la fecondità spirituale in ogni maniera di opere buone. A questa spirituale fecondità accenna il Salmista colla bella similitudine della rugiada onde in Oriente si ricoprono, si rinfrescano e si giovano i monti soprattutto.

Sicut ros Hermon, qui descendit in montem Sion” (versetto 3).

Le estive e fresche rugiade che nei più caldi mesi della Palestina cadono a












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a fecondare i monti di Ermon e Sion non sono che pallida immagine della spirituale fecondità delle anime dei fratelli uniti nel Signore, perché, ove sono anche solo due o tre riuniti nel Nome di Dio, Dio è in mezzo di loro e la mano di Dio è sovra di essi, e allora avviene che là, dove finisce la mano dell'uomo, là comincia la mano di Dio. E infatti è agevole a intendersi qual bene e quanto grande bene si può sperare colà ove si vive concordi e di un sol sentimento nel Signore, ed ove tutti vanno osservando la Regola nella carità, camminando diritti per la diritta via del Signore, e portati dallo spirito del Signore, là ove vigoreggi la carità di Cristo, ove fiorisca, sotto lo sguardo di Dio, l'amorevole concordia di molti buoni uniti in Domino!

Come, per contrario, è troppo chiaro che niun'opera grande può condursi a buon termine senza il concorso di molti. Ciò spiega l'ammirabile fecondità dei religiosi Istituti in ogni maniera di opere d'ingegno, di cuore e di mano.

Aprite il Martirologio della Chiesa, e vedrete che forse una metà dei santi, toltine i martiri, si formarono nei monasteri o nelle comunità religiose. Entrate nelle biblioteche, e ditemi se vi ha ramo di scienze sacre e profane che non abbia avuto celebri scrittori religiosi, antichi e moderni: andate per tutte le parti del mondo, e contate il numero dei missionari di quegli eroi della croce che portano per tutto il Vangelo di Cristo, che lo


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seminano nelle anime e nel cuore dei popoli e poi lo fecondano dei loro sudori sempre, e, ben di frequente, del loro sangue.

Ebbene noi troviamo che la migliore e la più gran parte di loro è composta di religiosi spiritualmente fecondi e santamente fecondatori della loro vita stessa, come e ben più che le feconde rugiade di Ermon e di Sion: sicut ros Hermon, qui descendit in montem Sion.

E il tempo nostro, mirando, in parecchi paesi, a disperdere questi uomini uniti e concordi, mostra, purtroppo, di non conoscere il dono di Dio, e si tira in capo le maledizioni dei monti di Gelboe, sui quali non cadono né pioggie, né rugiada: “Montes Gelboe nec ros nec pluvia veniat super vos” (1° dei Re, 1,21).

E di certo la copia delle divine benedizioni e l'abbondanza di tutti i doni celesti, è promessa ai fratelli, cioè è dal Cielo promessa e data a tutti quelli che vivono nella carità del Signore, insieme uniti e concordi, il che è il quarto vantaggio della fraterna carità in Cristo.

Quoniam illic mandavit Dominus benedictionem et vitam usque in saeculum” (versetto 4).

E, infatti, che possiamo fare noi, poveri uomini, senza la benedizione di Dio? Senza Dio, no che non si edifica, o si edifica sulla sabbia. “Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt qui aedificant eam”.

E anche il nostro Tasso, nella Gerusalemme Liberata:



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Non edifica quei che vuol gl'imperi

su fondamenti fabricar mondani……..

ma ben move ruine, ond'egli oppresso

sol costrutto un sepolcro abbia a sé stesso”.

Senza Dio non si unifica, non si edifica, ma si disperde, ma si ruina.

Ora, non sono benedetti da Dio che i fratelli  consenzienti e uniti, fra loro da amore e da carità  scambievole; non sono e non saranno mai benedette da Dio che le anime nelle quali è carità; che le comunità religiose dove vi è concordia, unione,  pace, dove si vive, si respira, si alimenta e si diffonde si irradia e entro e fuori lo spirito di Nostro Signore Gesù Cristo, che è carità: Deus Charitas est! Quoniam illic mandavit Dominus benedictionem!      Il Vangelo  non potrebbe parlare più chiaramente: “Se due di voi consentiranno sulla terra, ogni  cosa che chiederanno sarà loro accordata dal mio  Padre che è nei Cieli” (Matt.  XVIII, 19). “Ma, chi  offre a Dio l'incenso delle sue preghiere, e ricorda che il fratello suo ha della ruggine in cuor suo  contro di lui, vada prima a riamicarsi con lui, e  poi venga ad offrire il sacrificio della sua preghiera”   (Matt.  V, 23-26). E’ dunque evidente che Iddio non benedice che  i fratelli e le anime concordi: “Quoniam illic mandavit Dominus benedictionem”.



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     E notate che queste benedizioni di Dio non sono già come quelle di Mosè o di Giacobbe, che  promettevano abbondanza di armenti e di biade e una terra stillante latte e miele, ma sono benedizioni ben più grandi e ben più alte, sono benedizioni, di cielo e di vita eterna: quoniam illic  mandavit benedictionem, et vitam usque ìn saeculum.

Questo Salmo, infatti, pare sia stato composto  perché venisse cantato, in un trasporto di gioia, dagli Ebrei, reduci dall'esilio babilonese a Gerusalemme loro patria, ove doveva rifiorire l'antica fratellanza, e togliersi lo scisma tra Giuda e Israele. (cfr.   Rosemaller, Scholia in Vetus Test.  P. IV).

Ma, checché sia di ciò, il vero si è che molto pia  propriamente e con più sublime altezza di poesia e  di santi affetti, vuol cantarsi questo Salmo dai fratelli uniti e da tutte le anime che, pur ancora sentendosi nell'esilio della terra, vogliono però camminare e, col divino aiuto camminano, peregrinanti  alla patria del Cielo. ove tutti i giusti saranno con-  summati in unum, come ha detto l'Apostolo Giovanni al Cap.  XVII.

E colà giunti, e accolti a festa dagli angeli e dai  santi, cioè dai nostri fratelli, che ci hanno preceduti  da questa misera vita a vita beata, e accolti dai martiri e dagli Apostoli del Signore, da quelli che a noi  trasmisero la carità di Cristo Signore Nostro e pur venendoci incontro la nostra Beatissima Madre, che  è Regina Sanctorum omnium e la Madre del Dio e Signore e Redentore nostro Cristo Gesù, tolti  tutti i dispareri e i dissapori



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di questo misero mondo,  con gli angeli e con i santi: con le Vergini, con i Confessori, con i martiri, con gli Apostoli e con  la Santissima Madre di Dio e nostra, perpetueremo  quel Cantico per tutti i secoli: Usque in saeculum!  Usque in saeculum!

Oh quanto, oh quanto mi è dolce il pensare che,  ad ogni arrivo dei nostri fratelli, i quali dall'esilio  torneranno alla patria celeste; che ad ogni arrivo di ciascuna delle anime a noi più care nel Signore, noi  rinnoveremo nel Cuore stesso di Gesù, nostro Dio e nostro Padre dolcissimo, nostro sospiro, nostro Amore  e Vita nostra eterna, noi rinnoveremo gli antichi  abbracciamenti, e con lagrime di soavissima gioia  e di santa felicità canteremo a coro sulle arpe degli  angeli il cantico della nostra fratellanza spirituale e  della carità: “Ecce quam bonum et quam jucundum  habitare fratres in Unum!” cioè in Dio!

  Unificati in Lui, che, avanti di patire e di morire  per noi, per noi ha pregato onde fossimo una sola  vita con Lui: “ut unum sint!”.

Oh sì, o Gesù mio, che io anelo a cantarlo soavissimamente il caotico divino della tua carità, ma non  voglio aspettare, no, a cantarlo entrando in Paradiso,  ma, per la tua infinita misericordia, ti supplico, o mio  dolce Signore e Padre e Maestro e Salvatore dell'anima mia, che tu mi voglia pietosamente concedere  di incominciare questo dolce cantico qui dalla terra;  qui, o Signore, da questa amplitudine di acque e di cielo, da questo



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Atlantico immenso che tanto mi parla  della tua potenza e della tua bontà. Fa, o mio Dio,  che tutta la vita mia sia un olocausto, sia un inno, un cantico sublime di divina carità e di consumazione  totale di me nell'amore a Te, o Signore, ed alla Santa  tua Chiesa, e al tuo Vicario in terra, e ai Vescovi  tuoi e a tutti i miei fratelli. Che tutta questa povera  vita mia sia un solo cantico di divina carità in terra,  perché voglio che sia per la tua grazia, o Signore  un solo cantico di divina carità in cielo! Carità!  Carità! Carità!

            “O amor di caritade,

perché m'hai sì ferito?          

lo cor tutto ho partito,

et arde per amore!”

Fa, o Gesù, che una scintilla almeno di questo  divino foco che ardeva nel petto dei tuoi Santi, che  struggeva in amore di carità Francesco d'Assisi, il  quale fu “tutto Serafico in ardore”, discenda a me e  a tutti i fratelli miei, o Amore Gesù, e perpetuamente e dolcissimamente in Te solo ci unisca e ci dia vita  e benedizione! Che da Te, e Gesù, Amore e Vita mia;  da Te Crocifisso, o Signore mio: da Te Eucarestia:  da Te Carità Infinita; da Te Capo e divina Misericordia, venga e copiosa si diffonda su di me peccatore e su tutti i miei fratelli: si diffonda come la luce  del sole che tu fai piovere sulla testa dei buoni e  sulla testa dei cattivi come il sole e ancora e ancora e ancora più si diffonda su


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tutti l'onda della tua carità, che tutti ci purifichi e ci pervada e ci trasformi, onde demersi in Te, o mio Dio, in un oceano  di carità ben più immenso che questo oceano su cui  vado navigando e donde a voi scrivo, in un oceano  infinito di luce e di splendori che ci farà ben più  gloriosi che non i monti di Ermon e di Sion cantiamo in eterno le misericordie del Signore, e siamo  eternamente benedetti dal Padre, dal Figlio e dallo  Spirito Santo!      Quoniam nobis mandavit Dominus benedictionem,  et vitam usque in saeculum! Fiat! Fiat!     Esce quam bonum et quam jucudum habitare  fratres in Unum!

E pregate per me povero peccatore, e vogliate,  nella vostra carità, pregare sempre!      E Dio ve ne ricompensi!

Dal Piroscafo “Re Vittorio”, in viaggio dal Brasile all'Italia.

Il 24 Giugno 1922, Festa di San Giovanni Battista e 50° anniversario del mio Santo Battesimo, attraversando oggi la linea dell'Equatore.

      A gloria di Dio Benedetto!


                                   Sac. Giovanni Luigi Orione

    dei Figli della Divina Provv.