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[Da copia dattiloscritta; vi sono aggiunte di pugno di Don Orione]

Copia, esattamente conforme, di lettera del Prof.re D.Ernesto Bonaiuti al S.Padre - in data 23 Ottobre 1928 quando, cioè, ancora si ignorava la composizione tra Santa Sede e Governo italiano, e le disposizioni del Concordato.

Padre Santo


Tre anni or sono, all’indomani della divulgazione della mirabile Vostra Enciclica sulla assoluta e universale sovranità spirituale di Cristo, io, obbedendo ad un irresistibile impulso della mia coscienza, mi permisi di esporre alla Santità Vostra la pena dal mio spirito, nel sentirmi separato dalla comunità visibile della Chiesa in momento di così concorde e così alta professione di fede e di pietà.

Oggi, a tre anni di distanza, un nuovo irresistibile impulso della coscienza mi induce a ribadire ancora una volta l’espressione della mia tenace e piena adesione all’insegnamento infallibile della Chiesa Cattolica, del mio immutabile vincolo di fedeltà ai suoi eterni valori, del mio proposito inconcusso di uniformarmi ai doveri infrangibili della mia professione religiosa.

Non mi spinge solamente a detta questa missiva la celebrazione annuale, prescritta da Vostra Santità, in questi giorni, affinché in mezzo alla irruzione generale della profanità paganeggiante, lo spirituale reame del Cristo sia periodicamente riconosciuto.

Mi spinge anche la prossimità di una data, che non potrei lasciar trascorrere senza compiere l’estremo tentativo di recuperare, attraverso, la proclamazione del mio indelebile carattere e della mia indistruttibile vocazione, quella pienezza di mansioni sacerdotali, la cui privazione costituisce da quasi un quinquennio l’appannaggio doloroso del mio duro ostracismo.

Si avvicina, Santità, il venticinquesimo della mia ordinazione sacerdotale.



















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Riandando indietro col pensiero, io vedo tutte le amare traversie di questi cinque lustri di speranze, idealità, di inquietudini, di lavoro a volte tumultuario, di delusioni. Quando nel dicembre 1903, nella basilica Lateranense, ricevetti sulle mani l’unzione che mi abilitava al compimento dei sacrosanti Misteri, la grande figura di Leone XIII era essa scesa, da pochissimi mesi, nel sepolcro. La mia fervida fiducia giovanile coltivava il sogno che la grande crociata da Lui bandita per l’innalzamento della cultura ecclesiastica avrebbe avuto un seguito trionfale, e avrebbe consentito alla vocazione che Dio ci aveva soffiato nel cuore, uno spiegamento benedetto e, perché benedetto, vittorioso.

I miei sentimenti, Padre Santo, non sono stati logorati da venticinque anni di sacerdozio. Oggi come allora sottopongo alla Sede di Pietro il mio attaccamento e la mia devozione. Esule, io ho ricordato la beatitudine promessa ai nostalgici. Ed i miei occhi non hanno cessato, in questo quinquennio, di riguardare, con desiderio accorato, la soglia della casa da cui sono stato, piangente, allontanato.

La grazia del Signore mi è parso non mancasse alla pertinace mia vocazione. E nella grazia era la certezza della riconciliazione immancabile.

Mi avvicino alla data del mio venticinquennio sacerdotale con la stessa fiducia che mi animava il dì che, per la prima volta, salî a consacrare sull’altare di S. Filippo. E io veggo nella Vostra per me sicura, benevola condiscendenza il rifiorire delle idealità e dei propositi che, venticinque anni fa, mi spinsero al sacerdozio.

E ho la certezza che, ammaestrato da così complesse e profonde esperienze, affidato alla tutela sapiente che Vostra Santità vorrà designare, io potrò al fine, con l’aiuto di Dio, nello estremo lembo della mia vita, offrire alla causa del cattolicesimo in questa tremenda ora di prova per la tradizione del suo universalismo religioso; la testimonianza morale e intellettuale che è stata sempre, o padre Santo, l’aspirazione  bruciante della mia esistenza.

In questa incrollabile certezza, mi prostro invocando la benedizione della riconciliazione e della pace, chiedendo l’oblio e il perdono per tutto che nella mia più recente attività possa aver dato pena ed amarezza alla Vostra anima paterna.